Verità senza politica

Francesco Gallo in L’Informazione, 2 ottobre 1994, p. 21

Dell’indifferenza in materia di società. Sgalambro parla del suo battagliero Pamphlet

Bisogna scegliere tra la polis e la filosofia. Ecco la premessa del nuovo libro del pensatore siciliano, scaturito dall’insofferenza nei confronti di questa nostra società. Una enorme, ingombrante presenza nel nome della quale si sacrificano quegli orizzonti metafisici a cui occorrerebbe dedicarsi con un diverso impegno. «Travolti dall’adorazione del sociale, si dimentica che la salvezza è solo individuale»

Nessuno si aspetti un libro facile. Quando si tratta di Manlio Sgalambro bisogna mettere in conto atmosfere rarefatte e apodittiche schegge di pensiero appena raffreddate da una prosa cristallina quanto essenziale.
Dell’indifferenza in materia di società, in questi giorni in libreria nella piccola, collana Adelphi, mantiene dunque tutte le promesse, anzi si può dire che per certi versi le superi, ma solo perché, come mostra chiaramente il titolo, tratta con coraggio e spregiudicatezza una materia che ci riguarda tutti: quello «stato di società», di cui il nostro tempo va orgoglioso, e verso cui Sgalambro prova al contrario autentico dichiarato «orrore».
«Mentre mi si concede di sciogliermi dai miei legami privati, – egli dice – non mi è assolutamente concesso farlo rispetto a quegli altri che mi soffocano altrettanto. Io posso separarmi da mia moglie, dai miei figli, da mille altre sciocchezze, ma sono legato mani e piedi all’obbedienza alle leggi… Io devo oltretutto soggiacere, come vado riflettendo, alle scelte della maggioranza, anche se so perfettamente di che si tratta».
Sgalambro nel libro attacca dunque l’idea stessa della politica («Che io debba essere governato: ecco dov’è lo scandalo»), i politici («Insomma, se ci fosse una gerarchia l’uomo politico occuperebbe l’ultimo posto»), ma in fondo si scaglia contro il nostro tempo che si è definitivamente allontanato da quegli orizzonti metafisici verso cui occorreva vero impegno. La sua resta una «filosofia solitaria» in cui solo al singolo, proprio in quanto tale, è dato confrontarsi con gli ineludibili problemi dello spirito. L’enorme, ingombrante presenza della società, il fare riferimento sempre e comunque a lei come referente unico da cui possa venirci ogni bene, è per Sgalambro una vera disgrazia, un tentativo di elusione nei confronti del vero, dell’assoluto, un ennesimo tentativo di confondere quell’«Io con il noi» di cui parlava Nietzsche.

Sgalambro, da dove nasce questa sua «indifferenza» verso il sociale?

«Credo che i mutamenti politici e la verità presentino due tavole distinte di valori. Oggi una visione politicistica fa dipendere anche i moti dell’intelligenza dai suoi propri moti, mentre il benessere dell’anima dipenderebbe da una o da un’altra forma di governo. Di un “uomo senza partito” si dubita come di un arnese da forca, un “uomo senza verità” viene invece considerato un galantuomo; a chi, infine, dice di averne una, dopo le risate che suscita, viene minacciosamente ricordato che un tempo, per simili bestie, c’era il fuoco, (alludo ad esempio alle guerre di religione dove si supponeva il concetto di verità). Quanto ai filosofi odierni, non c’è dubbio che siano solo dei politici, dipendono dallo Stato e dall’opinione pubblica, il loro pensiero non fa che esprimere le beghe del Demos. Invece bisogna scegliere tra la polis e ia filosofia. Ecco dunque la premessa dalla quale è sortito questo libretto, da questa improvvisa evidenza di “essere governato”. In sostanza il percorso dell’emancipazione che avrebbe fatto l’uomo europeo finisce qui in una complessa e intricata vicenda in cui tutto è politico, dove la politica diventa l’elemento fondamentale».

Quando e come è accaduto tutto questo?

«Il concetto di verità comincia a regredire in Europa quando con il trattato di Westfalia si pone fine alle guerre di religione. Da allora, alle guerre di religione si sostituiscono quelle della politica. Dunque il concetto di verità viene abolito dalla politica che si rivolge solo al “vero-utile”, al “meglio”. Corrodendo la politica poco a poco questo concetto di verità, si arriva alla fine a quel pragmatismo, che va dall’illuminismo fino ad oggi, che pone al centro il “misero” concetto di società. E proprio questo diventa in qualche modo sostitutive dei concetti metafisici».

Perché nel suo libro parla così male dell’uomo politico?

«Perché il politico rappresenta, in maniera consapevole o meno, questa amministrazione dell’illusione che cacciata fuori da una lato rispunta dall’altro. Ora io credo che le illusioni si possono concedere alla metafisica, ma non alla politica».

Lei dice che la politica si deve regolare sulla metafisica, e non viceversa, ma poi la metafisica che lei propone è praticabile solo dal singolo, Il sociale ne è fuori, si autoesclude.

«Sì, si autoesclude, perché tutto è visto nella prospettiva dell’unica realtà che esiste che, secondo me, resta quella dell’individuo e non del sociale. Il sociale è appunto solo una costruzione intorno alla figura dell’individuo. Ora invece la massiccia presenza del sociale, il suo stesso incombere ne fa un vero mostro, un’entità asiratta e trascendente al pari di ciò che nelle vecchie metafisiche era Dio. Il mio libro non è altro che un tentativo di rimuovere questa adorazione del sociale che ci ha travolto un po’ tutti».

Dunque la salvezza è solo individuale?

«Certamente. La salvezza è data solo ai singolo».

Lei si è definito, di volta in volta, “filosofo”, “chierico”, “teologo” e altro. Oggi come si definirebbe?

«Continuo a restare un “chierico” che guarda attorno a sé, ma, se vuole anche un “teologo”, se per teologo si intende colui il quale assume sulle cose che lo circondano il punto di vista più alto possibile, che sarebbe appunto il punto di vista di Dio».

Ultimamente lei ha preso pubblicamente le difese del filosofo Massimo Cacciari accusato per l’ennesima volta di “stile elitario”. Un’accusa che è stata rivolta spesso anche a lei. Che cosa ha da dire a questo proposito?

«Non credo che ci siano altri modi di scrivere, un altro tipo di scrittura non esiste, in ogni caso non sarebbe filosofica. Lo stile della filosofia non può essere uno stile per molti, uno stile colloquiale, amicale, ma deve essere uno stile che quasi si contorce su se stesso affinché colui il quale vuole veramente leggerlo sappia succhiare anche il midollo, faccia insomma il necessario sforzo per comprendere. Anche questo è oggi molto importante nel rapporto del lettore col libro».

Quando scrive un libro a che tipo di lettore pensa?

«A un lettore il quale lasci tutto e segua quel libro fino alla fine, che si dedichi seriamente ad entrare nelle sue argomentazioni anche se poi scopre di pensarla esattamente al contrario».

Lei è stato per molti anni uno sconosciuto, qualche rimpianto par quel periodo?

«Le dirò che siccome ho un’armatura intorno a me, tutto diventa abbastanza indifferente. Non rimpiango il tempo passato come non rimpiango l’oggi. Cerco solo di fare bene quello che credo debba essere il lavoro di un filosofo».