Società ti odio

Pierluigi Battista in Tuttolibri (suppl. di La Stampa), XIX, n. 922, 17 settembre 1994, p. 1

Un provocatorio pamphlet di Sgalambro demolisce quel «mostro» invadente che mortifica la libertà dell’individuo. Chi chiede a gran voce un mondo più giusto «sembra un immaturo o del tutto folle»

Roma – L’individualismo? Secondo Emmanuel Mounier esprime nient’altro che una «metafisica della solitudine», la sola che ci resta quando abbiamo perduto la verità, il mondo e la comunità degli uomini». Per Joseph De Maistre rappresenta una sciagura, giacché ovunque domini la ragione individuale non può esistere niente di grande, perché tutto quanto è grande riposa su una fede, e lo choc delle opinioni particolari abbandonate a se stesse produce solo uno scetticismo che distrugge tutto». Per Maritain è una «forza potentemente negativa». Per i custodi dell’ortodossia marx-leninista era sempre «piccolo-borghese». Per le ideologie solidariste un sinonimo di «bieco egoismo».
Impallinato da destra e da sinistra, colpito da una scomunica morale che ne ha fatto l’emblema stesso del «disvalore», un sintomo di grettezza d’animo se non addirittura di un inclinazione perversa alla difesa ringhiosa di un interesse «anti-sociale», l’«individualismo», l’idea secondo cui spetta all’individuo fissare autonomamente movimenti e finalità della propria vita, viene ora restituito alla sua storia da un libro di Alain Laurent pubblicato dal Mulino, Storia dell’individualismo (pp. 114, L. 14.000).
Magra consolazione, per gli individualisti impenitenti (e minoritari). L’opinione comune li descrive pur sempre con diffidenza, il sospetto che dentro i loro cuori covino comunque un’avversione irriducibile ai valori della Società accompagna costantemente ogni loro azione o argomentazione. E se gli individualisti, entrando in libreria, fossero attratti dal titolo dell’ultimo saggio del filosofo Manlio Sgalambro, Dell’indifferenza in materia di società (pp. 90, L. 11.000), scoprirebbero con costernazione che in quelle pagine, malgrado l’apparenza, è contenuto il verdetto della loro ennesima condanna.
«Che “io” debba essere governato: ecco da dove inizia lo scandalo della politica»: l’incipit di Sgalambro incatena l’attenzione del lettore individualista. E in effetti è solo l’inizio di una radicale e intransigente demolizione del mostro «sociale» che Sgalambro realizza con il suo consueto disprezzo delle «idee correnti». La «società» un valore? Sgalambro inorridisce. Per lui la «società» è piuttosto un «asilo» necessario ma tremendo, «un vivitorio pubblico», un «tetto» e niente di più. Agli occhi dell’«individuo consapevole» i «legami sociali non hanno più alcuna nobiltà ed egli li sopporta come parte di un destino non favorevole». Certo, un destino sventurato impone che si debba vivere accanto ai propri simili, tocca pur sempre sopportare quella «tutela dei minorati» che si esprime nello «stato di società»: «ma per me», scrive Sgalambro, «tale stato è come lo stato di natura hobbesiano e le mani benedicenti dei miei governanti mi sembrano artigli pronti a stritolarmi».
La «società» di Sgalambro: una «cosa maligna», l’effetto nocivo di una «lunga abitudine», una pellicola opaca e ingombrante che circonda e mortifica la vita. Solo che nugoli di riformatori» vorrebbero chissà perché sublimare, addirittura «migliorare», questa seconda natura che ci opprime: non basta agli occhi dei molti un atto, bisogna invece che sia «buono». Pretesa assurda e irritante, per Sgalambro: «Si esalterebbero forse quei moti attraverso cui si evacua, o il budellino con cui ce la spassiamo? È come il suolo su cui poggio i piedi – non lo adoro certo. Nella più perfetta indifferenza – non mi ama di sicuro – mi sostiene, consente i miei passi. E io lo ripago della stessa moneta».
È l’«indifferenza in materia di società», appunto. È l’insofferenza verso questa cosa invadente, verso questa penitenza continua che è la «società» e che invece ci si ostina ad «adorare» e addirittura a voler «cambiare». E perciò, sferza Sgalambro, «quelli che chiedono a gran voce la società “giusta” al posto della società tale e quale, mi sembrano immaturi o del tutto folli». Contro gli spiriti forti alla Sgalambro s’avanza minaccioso, gonfio di pretese, il «bigotto sociale» ispirato da «fanatismo sociale» nonché figlio di quell’Illuminismo («detesto, debbo dire, l’Illuminismo») che «ampliò a dismisura la politica contribuendo a darle un’importanza smodata»: «L’irruzione della politica nelle delicate zone della metafisica è nefasta».
Per l’individualista che si è accostato fiducioso al libro di Sgalambro scatta il campanello d’allarme. Il filosofo non è dalla parte sua, infatti, ma della Verità. La quale «se ne infischia della libertà» giacché «verità e libertà non possono assolutamente coesistere. Per l’individualista vale casomai la legge contraria: lui «se ne infischia» della verità (o per lo meno della sua realizzazione su questa terra) e punta tutto sulla libertà di essere individuo. Colpevolizzato per questa sua pretesa. Criticato per questa sua velleità da un libro scritto dal sociologo Franco Crespi appena uscito da Donzelli, Imparare ad esistere. Nuovi fondamenti della solidarietà sociale (pp. 126, L. 28.000) in cui viene spiegato come l’«auto-realizzazione personale» sia «intimamente connessa con la responsabilità sociale». E tuttavia, a differenza di Sgalambro (e come appare dagli scritti di due liberisti «militanti» come Bastiat e Molinari pubblicati da Liberilibri con il titolo Contro lo statalismo e con la prefazione di Sergio Ricossa), persuaso che non sia affatto indifferente come funzioni una società e quali mezzi siano adoperati per migliorarla. Lo «stato di società» così vigorosamente scorticato da Sgalambro sarà pure un destino insopportabile. Ma è cosi dissennato sperare di viverci un po’ meglio?