Siciliano di Germania

Felice Modica in Il Giornale, 16 luglio 1994, p. 15

Da Lentini alla Baviera e ritorno: irrazionalismo come rimedio a Croce e Gentile

Manlio Sgalambro, filosofo dell’Occidente

Catania, nera di lava, riflette i maligni barbagli dell’estate. La città s’è desta e di nuovo produce i suoi assordanti rumori, il solito spaventevole brulichio di vite. Tutto questo resta però miracolosamente escluso, confinato fuori dall’elegante residenza del filosofo. Che anche le piccole cellule del corpaccio metropolitano percepiscono diverso ed estraneo. «La casa del professore?». «Di chi, dello scienziato?» – rispondono con rispettosa diffidenza, quasi a prenderne le distanze – baristi, posteggiatori, edicolanti insomma, tutte le componenti del caos urbano. Manlio Sgalambro vive nel cuore di Catania, ma lascia la città fuori dalla porta. Cosicché, nel varcarla, si provano il disagio e l’emozione di un gesto quasi sacrilego. potenziati dal fatto di entrare subito nel centro della casa, la sua stanza di lavoro, attorno alla quale s’intuisce che il resto è stato costruito. Libri, ovviamente, una massa enorme e ordinata che lambisce il soffitto, ma anche un personal computer alla scrivania e una vera civetta impagliata, forse la mitica nottola di Minerva.
È qui, seduto sulla sedia preferita (la più scomoda fra le due), che l’autore di La morte del sole (Adelphi) accetta d’essere intervistato.

Racconterebbe la sua Sicilia, quella che ricorda con tenerezza – ammesso che tale sentimento appartenga ai filosofi – o quella che più le fa rabbia?

«Un vecchio greco diceva che sul luogo natio non c’è molto da dire, visto che lo condividiamo con locuste, cavallette e formiche. Io abito qui e vi sono radicato, ma da sé l’atto filosofico è un atto di slegamento, non di unione. Esso mette uno iato tra sé e le cose, tra sé e l’altro sé. Nonostante ciò, ho un particolare ricordo di Lentini, il luogo della mia giovinezza. Lentini, per via dei rapporti commerciali che intratteneva con molti paesi tedeschi, mi offri, ancora adolescente, la possibilità di visitare la Germania. La Monaco dei primi anni del secolo, non ancora cambiata dal nazismo, era la città in cui viveva Thomas Mann (avevo appena letto i Buddenbrook), dove (come poi avrei appreso) Spengler aveva pensato e scritto il suo capolavoro, Il tramonto dell’Occidente. L’asfittico razionalismo delle filosofie italiane di quei tempi (l’idealismo di Croce e Gentile) non consentiva di vedere dentro di sé. Da Monaco, invece, arrivavano fino alla Sicilia echi non illuministi, ma irrazionalisti e vi era stato anche un cattolicesimo singolare. Aveva abitato Max Scheler da quelle parti».

Insomma, la sua Sicilia è nel cuore dell’Europa?

«Gli altri, anche quelli della “buona società” andavano a Parigi, io a Monaco, che mi fu di sussidio e mi regolò. La Sicilia non fu luogo di amarezze e viltà. Non collocai certo la piccola Lentini verso la patria greca, né vidi l’Isola rivolta all Africa, ma posta nel centro dell’Europa. Il che mi consente tuttora di ritenermi centro e non periferia remota e distante».

Esiste la «sicilitudine»?

«Né più né meno che l'”haitianitudine”».

Con la mafia, ma la bestia siciliana, come ha regolato i conti?

«Al filosofo interessa la mafia metafisica, i limiti del mondo, non quelli della società. Tutto ciò, me ne rendo conto, è molto monacense».

Di recente, a proposito dell’emergenza mafiosa, lei ha detto che “i siciliani debbono essere lasciati soli, messi con le spalle al muro, provare l’etica del delitto, cioè lo stupore politico che provoca la fisica e concreta sperimentazione del male”. Che cosa era, la condanna dell'”oscurantismo illuminista” che ha esorcizzato il male, o il tarlo separatista di tutti gli intellettuali siciliani? O che altro?

«Chi leggesse la storia d’Italia in un’ottica europea, per esempio francese, si accorgerebbe del fatto che l’Italia cessò di essere un grande Paese di cultura man mano che si unificò. Il vigore dell’Italia rinascimentale (ma non solo) fu appiattito dall’unità. Il vero elemento unificatore è la lingua, non la presidenza della Repubblica».

Par di capire che lei si schieri con gli oppositori di Gentile, nell’attribuire carattere europeo alla cultura siciliana.

«Tanto europeo da anticipare le tendenze dell’Occidente, Gentile vive il tramonto dell’anima siciliana, ma non capi che esso prefigurava il grande tema di oggi il tramonto dell’Occidente».

Il politico è “l’ultimo uomo” di Nietzsche. Perché è il più potente?

«Il primato della politica è figlio del grande pragmatismo che segue la stagione illuminista, in base al quale l’uomo è finito, manchevole, bisognoso e perfino la verità e la scienza debbono “assisterlo”. Però, in fondo si tratta di “un primato da primati”».

Lei ha anche scritto il libretto di un’opera, Il cavaliere dell’intelletto, dedicata a Federico Il e musicata da Franco Battiato. Per Battinto ha scritto pure i dieci testi del prossimo album. Come nasce questa insolita e formidabile collaborazione?

«Ci incontriamo per caso e ci intendiamo, evidentemente non per caso».

A quando e dove la “prima”?

«A Palermo, in settembre».

Di molto altro piacerebbe parlare con Sgalambro. È noto, però, come egli s’intossichi al prolungato contatto con estranei: prima che il corpo gli s’empia di ponfi, si può giusto chiedergli in quale società amerebbe vivere. Secca la risposta: «Laddove io abbia la capacita di sciogliermi dai legami sociali con la stessa disinvoltura con cui li annodo». Si chiude così l’uscio e con l’intruso esce anche il mondo, dal privato mondo di Manlio Sgalambro.