Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, XI, n. 5, maggio 1994, p. 26
Si può discutere Gentile, ma non togliere a Gentile la sua morte. Nel momento della morte, Gentile diviene un intellettuale politico nel più alto senso del termine
A un tratto, i suoi giudizi sugli eventi in corso, l’ordine nuovo e diverso che auspicava, lo stato etico e ogni altro, diventano giudizi consacrati dalla morte storica.
Gentile nacque a Castelvetrano nel 1875. Al di là delle vicende della sua formazione – Scuola Normale di Pisa, rapporti con Donato Jaja, con Croce e tutto quanto i suoi biografi sogliono raccontare – fondamentali e trascurati sono stati i suoi rapporti con la Sicilia. Non buoni, certamente. Ma ciò che Gentile cacciava, tornava trasformato. Egli vi vedeva solo arretratezza e volgarità e i siciliani un popolaccio incolto, gretto, misero. Ciò lo rafforzava nella sua visione di uno «spirito italiano» all’interno del quale doveva risolversi anzi si era in effetti risolta «l’anima siciliana» cancellando ogni traccia di una cultura siciliana.
Così poteva dire: «Oggi non più distinguibile una cultura siciliana regionale (salvo che negli strati infimi, che non hanno grande importanza storica), perché non c’è più, isolata e contrapposta al generale spirito italiano, un’anima siciliana. La dissoluzione di questa cultura ha luogo appunto dopo il 1860». La cultura siciliana era finita, aggiungerà Gentile, perché non vi penetrò d’uomo che è persona; spirito, che non è la stessa natura materiale, a cui l’uomo, come animale, appartiene, anzi il signore di codesta natura; libero, laddove la natura è bruta». Gentile aveva bisogno di questo «cattivo esempio» per diventare egli stesso quel «buon esempio» che sempre ritenne di essere. Il carattere materialistico e pessimistico della cultura siciliana, che egli notava e aborriva, era invece il contrassegno della diversità di questa cultura. Un «disincanto» ante litteram, che doveva precedere il grande disincanto che prenderà l’Europa in pieno secolo ventesimo.
L’incontro con Croce fu determinante e ugualmente determinante lo scontro con Croce. Non per delle «sciocchezze» filosofiche, come ebbe qualche volta a dire Croce, essi si scontravano ma per l’acuta diversità di visioni L’amaro e realista Croce cosa aveva a che fare, d’altronde, con l’euforico ed esuberante amico? Le vicende di vita del Gentile sono soprattutto misere vicende universitarie. Le vicende politiche rientrano nello scotto dell’uomo e dei tempi. Tuttavia ciò che veramente lo fece diventare un intellettuale politico, fu più che la vicenda del suo rapporto – anche se talora egemonico – col fascismo, la sua morte violenta. La crudeltà della morte sembra sproporzionata alla persona, fu detto, sembra gettare non tua luce tragica, ma un senso di grottesco su una vita e su un’anima mediocre. Questo crudo giudizio è di un altro filosofo, Antonio Banfi. Ma non si può togliere a Gentile la sua morte. Nel momento di essa Gentile diventa un intellettuale politico nel più alto senso del termine. Tutto a un tratto i suoi giudizi su quello che era in corso, l’ordine nuovo e diverso che egli auspicava, lo stato etico, eccetera, da mere «sciocchezze» filosofiche diventano giudizi consacrati dalla morte storica. Ma assumeva anche un diverso destino la sua filosofia. Da «filosofia universitaria», in cui il termine «vita», che in un Gentile per il vero richiamava pacifiche gite domenicali e interminabili chiacchiere, ci si avvedeva invece che conteneva un certo che di tragico. E ricevevano credito parole parse enfatiche e di un eroismo dipinto. «Giacché la vita – aveva detto il Gentile e non gli si era molto creduto – è sempre svolgimento e perciò cangiamento continuo, incessante: quindi verità ma anche varietà e conflitto interno di elementi discordi dal quale la vita è promossa a nuove forme. E dove è calma d’acqua stagnante, l’aria s’ammorba e la vita si spegne» (Che cosa è il fascismo?). La sua uccisione diventava insomma, cosa veramente stana, quella «prova» inconfutabile che Gentile andava cercando delle sue medi e di quella «vita» che poneva sopra tutto. Ma il giudizio sopra riportato – «E dov’è calma d’acqua stagnante, l’aria s’ammorba e la vita si spegne» – era tal quale come se fosse ripreso dalla sua analisi dell’anima siciliana fatta appunto ne Il tramonto della cultura siciliana. Mentre il disincanto e la malinconia della Sicilia che egli vi denunciava come qualcosa di perverso non faceva che precorrere quel disincanto e quella malinconia che presto avrebbe percorso in lungo e in largo l’Europa. E l’errore di Gentile e del suo attualismo o meglio del suo vitalismo estremo era di non averlo capito. La malinconia siciliana è il sintomo del «tramonto dell’occidente». E se il Gentile aveva visto giusto nel vedere il «tramonto» dell’anima siciliana, sbagliati erano i motivi e le prospettive di esso. E veramente «provinciale» e ristretta la sua valutazione. Nel tramonto dell’anima siciliana si preannunciava il tramonto dell’occidente. Il grande tema dei nostri giorni.