Giuseppe Testa in La Sicilia, 11 marzo 1994, p. 28
Oggi si presenta a Catania il nuovo libro del filosofo Manlio Sgalambro Contro la musica
«Non si distingue tra canzoni da stadio e un quartetto d’archi»

«L’ascolto è senza ethos, l’ascoltatore inciampa nella musica anche se non vuole sentirne. L’Occidente ha trasformato un’esperienza dello spirito in fatto di cultura, cioè di amministrabile»
Oggi, alle 17:30, nel foyer del teatro Massimo Bellini di Catania, Andrea Licata e Aldo Mattina presenteranno il libro di Manlio Sgalambro Contro la musica, stampato per i tipi della De Martinis & C. Abbiamo intervistato l’autore.
Non tragga in inganno il titolo del pamphlet: soltanto in apparenza l’«opprimente melassa» contro cui Manlio Sgalambro scaglia le sue frecce avvelenate è l’arte della musica. In realtà, il filosofo svolge
kantianamente una «critica dell’ascolto». Un ascolto che – afferma – «è senza ethos, un ascolto subito, dove l’ascoltatore inciampa nella musica anche se non vuole sentirne, e non c’è più distinzione tra una canzone da stadio e un quartetto di archi».
Professore, sarebbe troppo banale pensare che lei sia semplicemente stufo di ascoltare canzonette, o che, per dire, non sopporti il fatto che le sue figliole frequentino le discoteche. Da che e come nasce, allora, l’idea di questo libretto?
«Dalla mia esperienza di ascoltatore, dalla mia disposizione a reduplicare l’ascolto, ad ascoltare me che ascolto musica; insomma ad ascoltare l’ascolto. E dall’essere obbligato ad ascoltarla, la musica, anche quando non la voglio, con impaccio o disagio: co me quando entro in un negozio per comprare un paio di mutande e, oltre a pagare, devo pure sorbirmi un sottofondo musicale».
Il suo libretto si chiude con una frase terribile: «Chi ascolta ascolta veramente, ascolta l’ascolto. Chi ascolta veramente, ascolta la fine del mondo». Dunque, non c’è o non ci sarebbe nulla d’ineffabile, di sublime, di eterno nella musica o, almeno, nell’ascoltarla?
«A mio modo di vedere, quel che lei dice è precisamente il frutto di un difetto storico nella qualità dell’ascolto. È chiaro che, via via che aumenta la possibilità di ascoltare musica, via via che si allarga la fascia dei potenziali ascoltatori, l’ascolto diventa un fatto rozzo».
Vale a dire?
«Vale a dire che l’ascolto si riduce alla scoperta di una emozione (ma ci si può emozionare anche stendendosi al sole sulla spiaggia), o peggio: diventa, come dire in e come di fatto accade, un fenomeno subito».
E invece?
La critica musicale, Bloch e Adorno più e meglio di altri, sostiene che la musica, come ogni altra forma d’arte, ha un’essenza sociale, in altre parole che c’è un rapporto finale, molto stretto, tra la musica giusta e la società giusta. Mi è sembrato che si dovesse battere ancora questa pista, e tentare di capire in che senso si potesse dire una cosa del genere. Perché, se questa è la funzione della musica, dirò che si tratta in verità di una sotto-funzione: in fondo, anche nelle corti del Rinascimento si faceva ottima musica. D’altra parte, la musica contemporanea, la dodecafonia, per esempio, sembra volersi slegare dal sociale, e cioè dal mondo. Schönberg diceva che avrebbe volentieri fatto a meno del pubblico nelle sale da concerto».
Lei vuol dire che, potendo fare a meno di essere ascoltata, la musica non ha nulla a che vedere con la società degli uomini, con il mondo? Che non serve a rendere il mondo né migliore né peggiore?
«Per quanto mi riguarda, la funzione sociale della musica è ben raffigurata in Rousseau. È quel sentimento di fusione, di calore, un calore sonoro che abbatte le barriere, affratella gli uomini, li rende tutti uguali suggerendo loro che abbiano lo stesso destino. Senonché l’ascolto, per l’uomo moderno, è un’esperienza isolata e isolante. Ascoltando musica egli risolve il suo problema di vivere, non quello della società in cui vive. Ogni forma di educazione musicale rivolta alla socializzazione si è risolta, lo sappiamo, in un fallimento».
In che senso? Lei sa benissimo che, per esempio, la musica leggera, il rock, mettono in moto meccanismi di coinvolgimento totalizzanti…
«Si, certo, a livello emozionale. Ma di emozioni abbiamo già parlato. Il fatto è che educare all’ascolto della musica per educare la gente a stare assieme, non solo non ha prodotto musicisti, ma nemmeno buoni fruitori di musica. Tanto è vero che la musica contemporanea coltiva l’ambizione di far sentire il silenzio: il suono, il tuono del silenzio. Insomma, Verdi non avrebbe mai pensato che la musica potesse interrompersi, cessare. Cage crede, invece, in assoluta buonafede che la musica un giorno possa anche finire. D’altra parte, non ne perderemmo un’oncia: ci sono immensi giacimenti sonori del tutto inesplorati. Solo che in questi spazi, in queste riserve, può entrare solo chi abbia il senso della morte effettiva della musica, come delle cose».
Questo, però, non è più un problema della musica. È un problema della filosofia…
«Precisamente. Quel che vorrei fosse chiaro è che, con la musica, da un certo punto in poi, l’Occidente ha trastormato un’esperienza dello spirito in un fatto di cultura. Cioè, in qualche cosa di amministrabile, di pianificabile, di storicizzabile. Ma lo spirito non si lascia né amministrare, né pianificare, né storicizzare».
Qual è il momento in cui si sarebbe prodotta questa distorsione?
«Quando è, appunto, cominciata l’epoca del cattivo ascolto. Quando è venuto meno quel che io chiamo il “patto etico” tra l’ascoltatore e la musica. Quando chi ascolta musica ha smesso di chiedersi se ci dovesse essere la musica o, visto che c’era, che cosa mai ci stesse a fare. Si deve sapere che la musica c’è perché, per un momento, si avveri il sogno che il mondo non ci sia, che non ci sia questa tragedia insulsa e tremenda che è il mondo. Direi che Wagner è l’ultimo compositore consapevole dell’essenza della musica. L’altezza, la sonorità, la profondità wagneriano cancellano la pena del mondo. Per cinque minuti».
Dunque, la parabola della musica come esperienza dello spirito si chiude là, si chiude con Wagner?
«Sì, a patto che ci si intenda. Non parlo di potenzialità espressiva, naturalmente. Ma quando Debussy dice “tutto è salvo per questa sera”, quando mette in musica queste parole, egli non fa altro, mi sembra, che dar credito a una pia illusione. Quella di chi, ascoltando la sua musica, tutta la musica comincia a credere, e a poco a poco si convince, che la salvezza possa arrivar dall’arte. È in questo preciso momento che lo spirito diventa cultura. Cambia il modo di ascoltare la musica e, di conseguenza cambia la musica stessa. Comincia l’epoca della musica destinata alle orecchie. Il suono diventa brivido, emozione, estasi. Viene meno la critica dell’ascolto perché l’udito è i peggiore dei sensi, il meno libero. Nell’orecchio il mondo viene ad abitare come un rumore dirompente a cui nessuno è in grado d’opporre resistenza».