Tony Zermo in La Sicilia, 16 febbraio 1994, p. 34
Intervista a Sgalambro
Il filosofo catanese (nella foto) afferma: «Sono i piazzisti di idee sociali, non sanno più creare arte». «Viviamo un tempo intensissimo, disordinato, che ci evita un’esistenza da insetti: bisogna avere il senso dell’evento, e ficcarsi dentro la vita d’oggi con un piacere da gaudente». «I siciliani un popolo metafisico»
Catania – Manlio Sgalambro ha uno strano “mestiere”, quello del filosofo. Forse i catanesi lo conoscono poco, ma è considerato tra i migliori pensatori italiani, uno dei pochi filosofi nostri conosciuti all’estero. Capita sempre cosi. «Nemo propheta in patria».
E poi noi catanesi abbiamo scarso rispetto per gli altri consimili in genere, e per gli uomini di cultura in particolare. Un giorno un gruppo di turisti andò a visitare la tomba di Giovanni Verga al cimitero di Catania e la trovò sporca e piena di erbacce. Quando gli scandalizzati visitatori protestarono con il netturbino di turno, quello borbottò: «Verga, Verga… è un morto come tutti gli altri».
Sgalambro, 69 anni, in un certo senso è un personaggio che incuriosisce il cronista, una sorta di marziano urbano. Cosa ci fa, come vive un filosofo a Catania, oggi che la cultura è andata a rifugiarsi in qualche angolo? Cos’è un negromante del pensiero, un uomo che legge nel futuro, o soltanto qualcuno che cerca l’essere e si pone più dubbi degli altri? Diceva Gorgia da Lentini qualche millennio fa: «L’essere non esiste, e se esiste non possiamo conoscerlo, e se lo conosciamo non possiamo comunicarlo». (Una volta, dopo avere ricordato questa massima, il Municipio di Lentini mi mandò i volumi di Gorgia: pubblicamente, anche se tardivamente, ringrazio).
Sgalambro, anch’egli di origini lentinesi come Gorgia, ha fatto sempre e solo il filosofo. Sta scrivendo un libro politico sull’indifferenza per i tipi dell’Adelphi, e l’ultimo suo parto è un saggio contro la musica pubblicato da una piccola e battagliera casa editrice catanese, la De Martinis & C. («Il C. importante – dice – perché in quel C. ci sono anch’io»).
Provo a chiedergli:
Che tempi sono, prof. Sgalambro? È il tempo dell’indifferenza o quello della rissa e del rancore? E il tempo della ragione dove si nasconde?
«La ragione si fa viva in modo diverso quando il tempo è diverso. I versi con cui si conclude il Faust di Goethe insegnano: “Per quanto il mondo si muova con moti del tutto irragionevoli, tuttavia alla fine ne esce qualcosa di buono, il vino”. Viviamo in un tempo intensissimo, disordinato, quanto basta a scongiurarci una vita da insetti. Bisogna avere il senso dell’evento e ficcarsi dentro la vita d’oggi con un piacere da gaudente. Per la conoscenza sono tempi felici. Si può conoscere l’uomo come le proprie tasche. Indifferenza e odio, questo e altro, caro amico, voilà l’homme».
Ma i siciliani come sono diventati? Cinici, pigri, in attesa del miracolo? O forse c’è una nuova generazione che non conosciamo e che spera ancora. C’era una bellissima vignetta di Altan che mostrava una donna grassa la quale diceva: «Sono talmente pigra che ancora spero che qualcosa possa cambiare».
«I siciliani sono un popolo metafisico. E credo che non abbiano mai “sperato”, Aggiungo che essi non sono nemmeno un popolo politico. La vita sociale li lascia indifferenti. Tuttavia essi sanno cos’è il “mondo”. Non è poco. Il 3 aprile 1787, alcuni giorni dopo l’arrivo in Sicilia, Goethe scrive una lettera: “Se non ci si è visti completamente circondati dal mare, non ci si può fare un’idea del mondo e del nostro rapporto con esso”. Ho fiducia in Goethe: noi conosciamo naturaliter tutto quello che c’è da conoscere».
Ma noi cosa siamo di più? Levantini o europei? E questo federalismo o decentramento di poteri aggraverà la nostra insularità, la nostra incapacità di gestirci?
«Non cambierei la mia insularità per nulla al mondo. Davanti a questa dubbia “Unità” fatta di sopportazione e di rampogne, dove è la nostra stessa identità che viene messa sotto accusa, credo agli effetti benefici di un ragionevole federalismo».
Mi chiedo e le chiedo se noi siciliani siamo tutti pirandelliani, protagonisti di commedie dell’assurdo, come a Catania dove si è verificato che un uomo di destra è diventato presidente della Provincia con i voti di sinistra e con largo assenteismo.
«Questo conferma quanto dicevo: il siciliano non è un popolo politico. Un animale politico sente la propria differenza politica come un tutt’uno con lui stesso. Qui invece “alle Kuhe schwarz sind”, o in buon italiano “tutte le vacche sono nere” (è il caso di dirlo)».
Abbiamo un destino economico noi siciliani? È un destino turistico per valorizzare le nostre bellezze? Oppure egoisticamente è meglio conservarle solo per noi, visto che non siamo mai riusciti a venderle bene?
«Credo che noi siciliani dobbiamo rappresentare lo “spirito” (detesto il termine cultura che si usa quando lo “spirito” si incanaglisce). La bellezza monumentale, la bellezza della nostra letteratura, sono queste il nostro destino».
L’Italia sembra un Paese in apnea, con il fiato sospeso, in attesa che accada qualcosa. Una nuova generazione politica che non arriva, una nuova generazione di manager che non spunta. Non abbiamo più fede, abbiamo solo questo senso di attesa, come ne Il deserto dei tartari.
«V’è una specie di sospensione teleologica della storia oggi in Italia, mi lasci dire così. Lei parla di nuove generazioni politiche e manageriali che non arrivano. Io vi aggiungo nuove generazioni che agiscano nel campo della “cultura” con rinnovata creatività, che sappiano cos’è pensare e pensino, che cos’è fare arte e la facciano. E anche queste non arrivano».
Un filosofo come lei, attaccato alle sue radici, tanto vero che abita nel vecchio centro storico, in piazza Umberto, come si difende. come vive, che impatto ha con Catania? Perché è rimasto in Sicilia dove «carmina non dant panem»?
«Un filosofo, o meglio un chierico, a cui i rapporti col suo tempo sono imposti dal vivere stesso ed egli li subisce, magari sguazzandoci dentro, “abita” in un luogo con tutto il distacco possibile. Ma, per parlare di me, io ho scritto qui i miei libri, vi ho pensato le mie cose, in qualche modo questo luogo vi entra, anzi ne costituisce la forza vitale. Io sono io e questa città».
Perché in genere gli intellettuali siciliani non entrano nell’attualità, nel sociale? Per la difficoltà di capire, per la paura di confondere la propria ispirazione?
«Intellettuale è una brutta parola per una brutta cosa: l’intelligenza messa al servizio della stupidità sociale. In realtà il concetto di intellettuale è un concetto propagandistico. L’intellettuale fa propaganda per un “mondo”, per una “società”. Batte il tamburo, anche se i suoni sono strazianti perché il meschino batte sulla sua pelle. L’intellettuale non vuole scrivere più una poesia, costruire una filosofia, esprimersi con dei colori. dei suoni, senza farlo per il “sociale”. Egli è solo un piazzista di idee sociali. Le discussioni da bacchettoni su politica e cultura, su cultura e sociale, fanno ormai solo arcadia. Solo gli intellettuali attardati, vecchie canaglie che non sanno più nulla di se stessi, della loro “vera patria”, o non vogliono saperlo, giocano ancora questo giuoco. Scrivano una grande poesia: a questo mirino. Costruiscano un grande pensiero, si riapproprino, insomma, di quel “creare” che chiamano vilmente “produrre”: e il sociale sarà loro dato in sovrappiù».