Manlio Sgalambro in Pietro Barcellona, Lo spazio della politica. Tecnica e democrazia, Riuniti, Roma, (marzo) 1993, pp. 165-171
Stare insieme e filosofare insieme per un breve momento: συσχολάζειν καί συμφιλοσοφεῖν. Oltre qui non credo possano andare le ambizioni in un fugace ragionamento. Sempre più gli effetti del filosofare si vanificano e il nostro, amico mio, è stato sempre un dialogo «infelice». Tutt’altro che vano, però. Esso ha dato luce, magari solo un guizzo, alle nostre reciproche evidenze. E ci ha ribadito ciascuno al proprio posto – alla propria conoscenza, al proprio fato – con più verosimiglianza. Il filosofo si tormenta non attorno alla ricerca della verità, come suole pensare l’insipiens, ma attorno a quella verità che lo possiede e lo sbatte da tutti i lati. Posto che è necessario fermarsi, posso dirti dove mi sono fermato?
La società si riproduce ciecamente, trae da uomini e cose altri uomini e cose e qualsiasi piano si abbozzi tosto essa lo rompe e dilaga come se avesse un’esistenza propria che pendesse come una mannaia sul capo di tutti. È la propria esistenza infatti che le interessa. Essa pensa solo a esistere e basta. Che per di più debba essere giusta, ecco una pretesa in cui mostriamo di non avere capito nulla della sua natura.
Cosa tenga unita una società, anche questo si è lasciato alle spalle molte risposte di cui restano solamente le macerie. Ora come ora, la società sembra solo una lunga abitudine. La sua durata, com’è prospettata anche dalle migliori teste, sgomenta. Ognuno viene duramente richiamato a dare il suo quotidiano tributo e poi buttato via. Ma sarebbe non averne capito niente attribuire tutto ciò alla sua «ingiustizia». Essa è quello che è. La società non è «sociale».
Bisogna dunque guardare la società come si guarda la natura dalla quale ci percepiamo ormai svincolati. Notiamo, sì, questo contorno, alberi, animaletti che strisciano o insetti che ci ronzano attorno, l’acqua di un ruscello che scorre, ma che ce ne importa? Lo sguardo scivola su di essi come su un levigato marmo, senza che qualcosa lo fermi. Allo stesso modo si percepisce il proprio stare eretti, e il complesso rapporto con le leggi che regolano la gravità, col fatto che l’atmosfera preme sul mio corpo con la forza di un chilogrammo per centimetro quadrato, questa e le altre leggi, vogliamo dire, non sono certo presenti in persona, insomma esse sono cadute nell’indifferenza e quando diventano tematiche sono tutt’altra cosa. Così lo sguardo maturo si poggia sulla società. Gli esseri che ci passano accanto non ci importano più degli insetti, e i rumori del giorno si confondono, per così dire, col più lontano cielo. Percepiamo voci, risa, sì, ma queste differenze non sono ciò a cui puntiamo, ma piuttosto all’indifferenza. Alla più banale unità in cui tutto è mischiato con tutto. Le varie funzioni, da quelle economiche a quelle politiche, le funzioni amministrative, eccetera, non vengono colte più dall’attenzione. Come le varie funzioni «naturali», digerire, evacuare, alle quali non va certo la coscienza, ma si svolgono in un individuo nella più perfetta apatia. Ma allora, come si butta del cibo in pasto ai cani così si può buttare un’azione, un gesto, a quell’individuo. Che lo si chiami bene, giusto – a dire il vero – ne stravolge il senso. Ma non basta agli occhi di costoro che uno faccia qualcosa, bisogna anche che sia buona. Ciò che conta invece è che questa azione provenga dall’anzidetta indifferenza. A noi non interessa quell’uomo, il suo stesso volto sfuma in un volto universale, o piuttosto vacuo e generico. Ma da questa indifferenza per lui, proprio per lui in persona, proviene il gesto che gli butta un atto, come si butta un osso a un cane. E che questo si chiami bene oppure no, anche questo infine è indifferente.
Che uno abbia bisogno di cibo non lo induce certo ad adorarlo o a rispettare in maniera particolare chi ce lo fornisce, siano gli altri, o gli orti e i frutteti, o gli atti con cui ce lo procuriamo. Si esalterebbero quei moti attraverso cui si evacua, o il budellino con il quale ce la spassiamo? È come il suolo su cui poggiamo i piedi – on lo adoriamo di certo. Nella più perfetta indifferenza – non ci ama di sicuro – ci sostiene, consente i nostri passi. E noi lo ripaghiamo della stessa moneta. La società ci tiene in mano, ci costringe ad avere rapporti. Tiene pronte relazioni come trappole in cui sicuramente cadiamo – amicizia, matrimonio, lavoro… -. Essa si fa mantenere, insomma, e ci spreme il sangue e ci butta poi vuoto involucro, da parte. Come si disse un tempo con orrore «stato di natura», così verrà tempo che si dirà, con uguale orrore, «stato di società».
Una politica che non vuole essere esaltata la cui indifferenza verrebbe ricambiata con l’indifferenza, una politica simile non ha molto di «umano». Se ne può convenire. Rassetta, aggiusta, mette ordine ma non «vede» «uomo» alcuno: è ciò di cui la si può accusare senz’altro. La potremmo definire una politica dell’indifferenza o in cui l’indifferenza è elevata a politica. Niente fervore sociale, dunque. Anzi il principio di aridità è portato sino in fondo. Di una politica siffatta, amministratrice invisibile e inesorabile di un ordine, bisogna riconoscerne e legittimarne l’arbitrio. Che essa elegga o condanni. Davanti a una siffatta politica si è sempre individui, mai società. Può scendere su di noi la mannaia o il calore e la grazia della compassione. Una filosofia segreta sola può decifrarne gli enigmi e constatare nell’arbitrio il segno elettivo di questa politica all’altezza della teologia di cui ha preso il posto con dignità. Questa politica invisibile si può vedere solo quando condanna o nel momento inobliabile della compassione. Poi scompare. Per lo più la politica è indifferente o per lo meno noi la riteniamo tale – beati quelli a cui non si rivela mai! – ma talora essa appare, il dio politico si mostra e si mostrano le idee del bene, del giusto, della felicità, a portata di mano. La sua indifferenza si incrina e anche la nostra. Torniamo a dire che solo a questo punto la politica può essere vista dalla filosofia (o da una filosofia). Sono l’uno di fronte all’altro, il tiranno, cioè colui che deve realizzare le idee del filosofo, e il filosofo stesso. Ma, come scrive Kojève, «Le conflit du philosophe placé en face du tyran n’est pas autre chose que le conflit de l’intellectuel mis en présence de l’action» (Tyrannie et sagesse). Solo il tiranno – solo la politica – può realizzare i piani del filosofo ma ogni azione è delittuosa. Così, mentre il tiranno persiste, il filosofo rinuncia. La politica ritorna nell’indifferenza e nell’invisibilità e il filosofo sconfitto ritorna alla compassione.
In un’epoca di freddezza, verso questi individui gettati in una società come in un ennesimo inganno Io sguardo politico maturo diviene dunque compassione. Questo è altresì il punto archimedico che libera il pessimismo politico dall’ipoteca pessimista. Se ogni teoria sociale è diventata ridicola ciò ha la sua spiegazione non nell’adattamento allo status quo, ma addirittura nell’adattamento al mondo che la «critica sociale» ha mascherato per lungo tempo. In questo senso essa è illusoria più di quello che ne sarebbe l’oggetto. Solo gli scribacchini si occupano ancora di «critica sociale». Essa continua solo perché altrimenti diverrebbe obbligatorio chiedersi se si può ancora vivere. E ciò in generale. Per questi uomini gettati in un universo che esige puntualmente la loro morte, «società» dovrebbe essere, nel suo limite estremo, ciò che li accomuna in nome dell’estremo destino e li difende dall’oltraggio del vivere medesimo… Dalla politica non ci si aspetta un futuro ma che, qui e ora, ciascuno guardi all’altro con pietà. Ogni gioachinismo sociale va collocato nella sfera del «collasso» dell’intelligenza europea. Il sapone illuministico l’ha ripulita dai pregiudizi ma anche dalla capacità di giudicare. La partita politica si giuoca invece tra noi. Il futuro è degli altri. Noi siamo noi stessi e non l’umanità. O per lo meno il concetto che sembra vincere, e che si dà comunque allo sguardo politico, è quello di una umanità discontinua. Noi non ci sentiamo più continuati dall’umanità che verrà. Una politica del futuro è dunque una politica che non ci riguarda. L’«umanità» come concetto ancora usabile si frammenta in una serie di umanità che si danno in simultaneità, non nella durata. Il genere umano è fatto solo di pochi (così potremmo parafrasare il verso di Lucano Humanis paucis vivit genus, che De Maistre giudicò massima terribile ma giustissima). L’umanità è data volta per volta. Di questa umanità tutta presente allo stesso sguardo sono pure presenti i limiti: sofferenza e morte contro cui invano cozza il «futuro».
La pietà che proviene dalla religione non ha più alcun senso. Essa passa sul nostro capo senza lasciare segno. Solo la pietà di chi «può» è vera pietà. Solo la politica oggi si può annettere dunque legittimamente la compassione. Non vogliamo più dire altro. Le linee della politica che immaginiamo ci sembrano ispirate e non indegne. Una politica rude, potente, capace di compassione…
Accenti di tenerezza per l’individuo, per la sua grama sorte, che la società, oltre l’opaco universo, sembra anch’essa evocare dovrebbero essere presenti dunque nella riflessione politica. La sorte di una specie gettata in un universo insensato dovrebbe motivarla non meno che l’essere gettati in una società «ingiusta». Vero, la società dovrebbe salvarci dall’universo che ci ingoia. Ma cosa ci salva dalla società? È necessaria un’etica in cui, la domanda, sempre pericolosa, «che devo fare?» si colleghi a una vita minacciata. La solidarietà, la reciproca compassione sono il serio frutto di un ethos che vi si richiami. Mentre l’inganno di massa si trastulla con l’idea di catastrofe, trascendente e aleatoria, l’idea invece che essa sia sempre incombente stringe gli individui in una unità dinamica e assume la funzione di una massima dell’agire che si può così formulare: agisci come se dovessi salvare te stesso e gli altri da una minaccia alla vita. La comunità riassume il proprio Sé e prende in mano il proprio destino pur nella malasorte. La minaccia non più solamente subita si riscatta nella consapevolezza di un implacabile mondo e ci accomuna non soltanto nella sofferenza ma nella lotta contro il dolore e l’affanno finché ci sarà data vita.