Giuseppe Testa in La Sicilia, 18 giugno 1993, p. 15
«Ho votato per un ricordo – dice il filosofo (nella foto) – e noto a Catania un movimento di fusione. Bisogna vedere se produrrà energia»
«Nel nuovo c’è il vecchio, ma dov’è lo scandalo? Come dice l’immagine evangelica, fuori ti aspettano per portarti via per i piedi»
Anche le elezioni (e i ballottaggi, poi) per il filosofo non sono che «eventi». Ancora e sempre, occasioni per pensare. «In modo enfatico, intendo». Ma che intenda davvero Manlio Sgalambro – catanese di adozione, filosofo da sempre, e da una decina d’anni scrittore di filosofia tra i più profondi e aspri – che cosa scruti dietro questa febbrile vigilia di spareggio, fra Enzo Bianco e Claudio Fava, sulle sorti di una città, Catania, che pare rinasca di fervore a ogni appuntamento con le urne. che cosa ci veda è meglio lasciarlo dire a lui, con le parole che sa: centellinate, ricercate, pregnanti come sempre.
Professore, c’è un’aria diversa in città. Due sfidanti, ciascuno a suo modo, di sinistra; molti dei vecchi idoli ricacciati in soffitta, qualcuno in galera, perfino; tanti giovani che vanno o tornano a votare entusiasti. C’è un certo movimento, insomma, non le pare?
«Non credo al misticismo civico, diffido dell’idolatria della città e non ho mai sognato la città di utopia. Però, certo, questi sintomi li avverto anch’io. La città si muove, eccome. Con il pericolo che il movimento non sia poi, per dirla con Hegel, un movimento di vermi: come nel formaggio. Perché, vede, anche nelle cose che vanno a male, che si decompongono, c’è movimento».
Le sembra, forse, che Catania viva una fase di ambiguità politica e civile?
«C’è qualcosa di più del solito. Vogliamo chiamarlo un “entusiasmo politico”? Anch’io, in fondo, ci ho pensato su prima di accettare l’intervista. Ma sono in debito con Catania: tutto quel che ho fatto, tutto quel che sono, è accaduto qui. Quest’aria ho respirato e non certo dalla feritoia di una torre d’avorio. Dunque, ho deciso di parlare da cittadino di Catania».
Per chi ha votato?
«Ho votato per un ricordo. Sulla scia di una passata sindacatura che allora convinse non pochi».
E al ballottaggio?
«Sono tenace, costante nelle mie scelte. In genere».
Però, per vincere, non bastano i consensi ottenuti al primo turno. C’è chi dice che il doppio turno agevola il mercato delle vacche. Lei come la pensa?
«L’esercizio della politica impone la mediazione. Ci sono mediazioni pulite e meno pulite, e ce ne sono di sporche. Può darsi che, ripulendo spolverando, qualche pezzo di spazzatura rimanga impigliato nella ramazza. Ma, al postutto, la mediazione politica non è che il tentativo di recuperare gli esclusi, di governare a nome di tutti. Un sindaco, o un candidato sindaco, che fosse o si mostrasse fazioso, rischierebbe di mettere di fronte due città, l’una contro l’altra armata».
Esattamente quel che avviene, o si finge che avvenga, in questa pletora di dibattiti televisivi. Non crede che la televisione abbia avuto un ruolo chiave durante la campagna elettorale?
«A me il ruolo della televisione, oggi, rispetto alla politica ricorda il ruolo della piazza rispetto al capo politico negli anni Trenta. Non vedo troppa differenza fra chi, nelle adunate di allora, si alzava in punta di piedi per vedere in faccia il capo e chi, al giorno d’oggi, riconosce solo i politici che passano più spesso sui teleschermi. Un giorno qualcuno studierà l’incidenza della televisione sulla democrazia di fine Novecento, così come qualcuno ha studiato la fecondazione della piazza nella nascita dei regimi del primo Novecento. Tuttavia, il rischio telegenico è difficile da evitare. Poiché in politica c’è anche un esercizio fideistico, la rovina delle ideologie ha fatto emergere i ciuffi, le cravatte, i sorrisi o i grugni».
Torniamo così all’ambiguità di questo voto, così diverso da quelli del passato…
«Diciamo che è in atto una fusione. È come stare sull’autobus: ognuno pensa ai fatti suoi e aspetta la fermata per scendere. Improvvisamente succede qualcosa: una brusca frenata, che so, un borseggio. Ecco che i passeggeri, che non sono niente l’uno per l’altro, per un certo tempo concentrano tutti assieme l’attenzione sull’accaduto, sull’evento.
Avviene la fusione. Catania vive un momento così adesso. Una fusione da evento politico. Un fenomeno raro per città come questa e, di per sé, nient’affatto deprezzabile».
Vuol dire che, una volta scelto il sindaco, ogni cosa tornerà come prima?
«La tenzone è eccellente, di buona levatura. I giovani che hanno votato Fava non mi dispiacciono. Anzi, mi sarei stupito se avessero fatto il contrario. Siamo davanti a una nuova antropologia giovanile. Sono ragazzi che, per capirci, non pensano più alla fuga dalla Sicilia come all’unica soluzione di sopravvivenza. Viaggiano abbastanza, misurano le differenze, tornano a casa senza rimpianti, ma anche senza ubbie. Una nuova generazione che spera: più che in passato. Non conoscono l’impegno politico di tipo “gauchiste” ma hanno più senso civico. C’è meno calcolo e più sprovvedutezza, se vuole, ma più generosità, e più spontaneità. Vanno a votare fiduciosi, come al primo incontro d’amore. Quanto al dopo elezioni, bisognerà vedere se la fusione produrrà energia, la giusta spinta coagulante. Perché l’unità della città, la sua ritrovata unità, consiste esattamente nell’arresto di una emorragia».
Crede che il vecchio proverà a fermare il nuovo? E il nuovo riuscirà ad arginare il vecchio?
«Nella storia del mondo il vecchio non se ne va mai così, come a teatro: con un inchino e un’uscita dalla comune. Lei vuol sapere se c’è del vecchio nel nuovo? E dov’è lo scandalo? Ricordi l’immagine evangelica: fuori ci sono quelli che ti aspettano per portarti via per i piedi».
Ma lei, Sgalambro, è più scettico o più indifferente?
«A un ateniese fu chiesto in che modo egli considerasse il suo rapporto con la città dove viveva. Non differentemente, rispose, da come possono considerarlo le lumache o le locuste. La città mi dà un territorio sul quale vivere: tutto qui».
Ma ci sarà pure un progetto che vorrebbe vedere realizzato.
«Se penso alla cultura, potrei tranquillamente affermare che tutto quanto un amministrazione civica è in grado di fare per la cultura è pericoloso. Lo spirito non si lascia né amministrare né assistere. Lo dimostrano tutti gli esempi di “cultura amministrata” che abbiamo visto e conosciuto. Pensi ai socialisti in Francia: tutte quelle gallerie d’arte, quei palazzi, quelle esposizioni, le piramidi. Beaubourg… Molto bello. sì, ma dentro c’era il nulla. Quel che una buona amministrazione può fare è di gettare le basi perché si insegni, si torni a insegnare bene. Ma per far questo c’è bisogno di molta immaginazione».
In concreto?
«Le biblioteche. Le sveglino. Facciano in modo che alcune biblioteche abbiano i doppi turni, che acquistino i libri nuovi. La biblioteca è il pane primo. Non lascino alle librerie il monopolio dei libri. Perché in libreria si vende la cultura imposta dall’editoria e i libri finiscono in classifica come le squadre di calcio».