Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, X, n. 5, maggio 1993, p. 30
Intellettuali e politica. Lettera immaginaria ad un amico su una tesi di Tocqueville. È giusto attribuire ai politici tutti i mali della società? No, non lo è perché sul banco degli accusati potrebbero trovarsi gli elettori…
Nell’uomo politico si incarna lo stato medio di una società, i vizi, le mediocrità, i difetti, come se egli ne assorbisse i mali al pari dei vecchi stregoni che succhiano la ferita purulenta succhiandone anche il maleficio.
Caro amico, diverse volte ci siamo proposti di discutere tra di noi sul perché ci facciamo rappresentare da politici imbelli e corrotti, per usare le tue parole. Tu hai risposto quasi sempre che ciò avviene perché la selezione politica non è delle migliori ma che comunque questo risultato deprecabile è correggibile. Io ho un’altra idea al riguardo e spero di esportela qui con qualche rigore. Tocqueville prevedeva che gli elettori americani avrebbero scelto deliberatamente allora rappresentanti uomini politici infimi e mediocri per poterli così disprezzare.
La disprezzabilità dell’uomo politico non è che un aspetto, forse il più visibile ma il meno riconosciuto, di ciò che egli rappresenta e fors’anche della sua funzione. Nell’uomo politico si incarna lo stato medio di una società, i vizi, le mediocrità, i difetti, come se egli ne assorbisse i mali al pari dei vecchi stregoni che succhiano la ferita purulenta succhiandone anche il maleficio. Così i loro vizi, le turpitudini, il malaffare, sanno di qualcosa di diverso. E come se essi imbrigliassero tutto ciò che di turpe esprimono e ne liberassero così gli altri.
L’uomo politico amministra, regola, assicura ordine, legifera, eccetera. Ma c’è il suo lato oscuro: gli intrighi, le occulte alleanze, gli imbrogli. Insomma ciò per cui egli è disprezzabile. Così c’è un orientamento diverso che regge la scelta dei propri rappresentanti. In base al quale noi scegliamo i mediocri, i loschi, gli incapaci o i capaci di tutto. Tuttavia senza questo, la democrazia moderna non esisterebbe. La prima Assemblea legislativa eletta nel 1791 in Francia viene così descritta da Hippolyte Taine: «sono un’accozzaglia di menti limitate, labili, impulsive, enfatiche e deboli; ad ogni seduta, venti macchinette parlanti si mettono a girare a vuoto e immediatamente il principale potere pubblico diventa una fabbrica di stupidità, una scuola di stravaganze e un teatro di declamazioni» (Hippolyte Taine, Le origini della Francia contemporanea. La rivoluzione, trad. it., Milano, 1989, vol. I, p. 693).
«Com’è possibile che delle persone serie si siano sorbite sino in fondo tante e così strepitose sciocchezze?», si chiede Taine. Inoltre, Tallian è un ladro, Fouché mette su in pochi anni una fortuna di quattordici milioni di franchi, buona parte del Direttorio è corrotta. Insomma la situazione è tale che Saint-Just corre ai ripari sostenendo: «Solo un nemico della Repubblica può accusare i suoi colleghi di dissipazioni, come se tutto non appartenesse di diritto ai patrioti» (v. Taine, op. cit., II, p. 359, nota 143). Ma, caro amico, è mai possibile che la frequente corruttela, la lassitudine morale, la labile intelligenza si debbano al caso? Io ho la mia ipotesi e te la espongo. Da quando la sovranità cambiò struttura e soggetto e dai re passò a tutti noi fu come se ci si dovesse guardare dagli uomini politici «virtuosi», «sobri», «onesti», come da un pericolo maggiore, ma soprattutto cambiò il comune senso del potere anche se negli strati profondi del nostro animo. Si concedette il potere di rappresentanza a patto che chi lo rappresentava non ne fosse degno (al contrario di quanto comunemente ci si ostina a credere). A patto che costoro fossero uomini infimi e poco rispettabili, come magistralmente s’accorse Toqueville e si poteva concedere loro il potere di rappresentarci perché ci si riservava quello di disprezzarli. Questo mi pare, amico mio, il fitto mistero che copre certi fatti frequenti. La corrimela, la miseria morale dei politici, che si scopre con un «ah!» di meraviglia, l’avevamo messa prima noi. Nel senso che la scelta che ne avevamo fatta se pur seguiva il disegno austero e la guida dell’onestà, abilità e simili, occultamente, nel nostro profondo si tramavano altri disegni. A compenso del potere che gli diamo, sulla testa del politico incombe il nostro disprezzo come se questo dovesse pareggiare i conti. Caro amico, sono anch’io perplesso e l’amarezza di questa ipotesi coglie anche me. Ma volevo spiegarmi quell’affermazione di Tocqueville.