Straniero in vita e filosofo

Franco Rella in L’Unità, 19 aprile 1993, p. II

Incroci

Il caso, l’uscita contemporanea di due libri di due autori diversi presso lo stesso editore, mi ha permesso di chiarire una sensazione molto simile, ma finora imprecisata, che ho sempre provato nei loro confronti.
Cominciamo dal primo caso. Manlio Sgalambro è uno straordinario scrittore di filosofia, che è apparso dieci anni fa sulla scena culturale e editoriale italiana con La morte del sole (Adelphi 1982). Da allora ho letto tutti i suoi libri. È dotato di un pensiero acuto e implacabile, e di uno stile limpido e aggressivo che ricorda, credo volutamente, quello di Schopenhauer dei Parerga e Paralipomena. Eppure ho sempre avuto l’impressione che il contenuto esplicito dei suoi libri non fosse per lui la cosa più importante. E anche adesso, mi rendo conto, l’ho presentato non come «filosofo» ma come «scrittore di filosofia».
Il piccolo libro appena uscito, Dialogo teologico, affronta alcuni temi di fondo del pensiero occidentale, che erano già emersi nel suo Trattato dell’empietà (Adelphi 1987). Dio è una densità di essere a cui è stata sottratta la parte peggiore. Ciononostante, di fronte a questa debordante presenza non possiamo non chiederci: «Se c’è Dio, da dove il male?». E non possiamo non concludere, che se Dio è identico a mondo «è identico al suo limite». La filosofia ha portato alle teologia solo il peso delle proprie contraddizioni. Il Dio «empio del teologo non ha contraddizioni, perché non ha alterità: tutto ciò che è altro, lo uccide. Ma la chiave del libro non è nel dialogo, ma nella premessa che è un autoritratto di Sgalambro come «filosofo». Ed è un ritratto «iper-filosofico», allo stesso modo che nelle arti si parla di «iper-realismo»; un eccesso di filosofia che porta fuori dalla filosofia.
Platone e Aristotele avevano teorizzato il filosofo come xenos bios, come vita straniera. Sgalambro enfatizza questa estraneità oltre ogni limite. Così afferma di essere «un chierico», di avere in odio tutto ciò che non è pensiero: «il lezzo», «l’unto della propria anima». Al corpo egli lascia «gli atti quotidiani», ma regolati da un’abitudine che li rende inoffensivi. Dichiara il proprio disgusto per la molteplicità, per una giustizia confusa alla quale preferisce una chiara ingiustizia. Dichiara la sua vergogna per un non superato amore per la letteratura. Fa aperta professione di  dogmatismo: è contro il dubbio e contro l’interpretazione. Non è un filosofo che parla, ma uno scrittore che fa un ritratto, drammatico e sarcastico insieme, del filosofo. La sua più che «una vita straniera» appare una estraneità alla vita, che appare l’esito stesso della filosofia. Ma la filosofia è nata, appunto, con la rimozione del problema della morte in Parmenide e in Platone. Questa estraneità alla vita della filosofia, cosi enfatizzata, non riporta al grande problema della morte? O addirittura a quell’«esagerato timore della morte» che Sgalambro dichiara essere suo: che la sua filosofia non ha sconfitto?
Un effetto iper-filosofico. Landolfi a me ha fatto sempre un effetto iper-letterario. E non c’è testo più iper-letterario di Un amore del nostro tempo. È la storia dell’incesto tra Sigismondo e Anna, che ricorda nei tratti iniziali la storia di Agathe e Ulrich nell’Uomo senso qualità (la morte del padre che avvicina i due figli, il carattere femmineo di Sigismondo, il fratello, come mascolino era invece l’aspetto di Agathe nel testo di Musil). Ma anche qui la storia pare un pretesto, il linguaggio è quello colto, ricercato fino all’astrazione, tipico di Landolfi. Iper-letterario e «finto», come dice lo stesso Landolfi in più luoghi: «egli stava recitando; e mi fissava ancora più intentamente»; «i suoi inverosimili personaggi»; «codesto è il modo di parlare dei film».
Il libro di Landolfi è come i sonetti di Sigismondo. A una prima lettura appaiono «piattamente e sgradevolmente letterari». Por appaiono «ben più che incantevoli, belli». Ma belli perché erano come se prima di essi «non vi fossero stati poeti». Belli perché attraverso un eccesso di letterarietà vanno oltre la letteratura.
Ma qual è questo oltre che la finzione o il sogno letterario al suo estremo lascia intravedere? Sigismondo è anche il nome del protagonista di un testo immenso, anch’esso iper-letterario: La vita è sogno di Calderón. La vita è inafferrabile in sé. Noi siamo prigionieri di una torre, e mai potremo afferrarla. Il sogno della vita è raggiungibile forse attraverso l’estremizzazione del sogno fino alla lacerazione del sogno che vorrebbe rappresentarla: del sogno letterario. Forse Sgalambro, con il suo amore vergognoso per la letteratura e la sua enfasi iper-filosofica, e Landolfi, con la sua enfasi iper-letteraria tendono a un luogo analogo. Un luogo che sta a fianco del logos, della ragione e delle sue pratiche e delle sue convenzioni, che si danno come insuperabili, e che forse possiamo raggiungere o intravvedere portandoci suoi limiti estremi.

Manlio Sgalambro
Dialogo teologico, Adelphi, pagg. 90, lire 9.000

Tommaso Landolfi
Un amore del nostro tempo, Adelphi, pagg. 145, lire 22 000