Giuseppe Cantarano in L’Unità, 19 aprile 1993, p. II
La violenza del mondo, la divinità, la teologia. Gianni Baget Bozzo, Edoardo Benvenuto, Sergio Quinzio ne discutono con Manlio Sgalambro (del quale Adelphi ha appena pubblicato Dialogo teologico)
Dialogo teologico (Adelphi, pagg. 90, lire 9.000) è il più recente lavoro di Manlio Sgalambro, con il quale il filosofo prosegue la sua ricerca sull’empietà di Dio, contro le rassicuranti tentazioni dell’odierna teologia, volte alla pacificazione e alla conciliazione. Ne discutono con l’autore Gianni Baget Bozzo, Edoardo Benvenuto e Sergio Quinzio. Del libro di Sgalambro tratta anche Franco Rella nella rubrica «Incroci».
Constatammo che l’annihilatio Dei è impossibile (o meglio, che essa dura il momento di un momento…). Ma uomo giusto è chi sa questo, che egli deve «annullare» Dio quotidianamente affinché la misura dell’eterna giustizia quotidianamente si compia»: potrebbe sembrare solo una vertiginosa iperbole teologica oppure un inaudito paradosso filosofico. Eppure, questa necessità di abrogare gli enti perché nel dissolvimento delle creature possa compiersi la suprema giustizia divina, altro non è che il tratto distintivo di gran parte del pensiero teologico medioevale. Un pensiero verso cui pare approdare Manlio Sgalambro nel suo Dialogo teologico. Ne abbiamo discusso con lo stesso Sgalambro e con i teologi Gianni Baget Bozzo, Edoardo Benvenuto e Sergio Quinzio.
«Il fascino del libro – secondo Baget Bozzo – sta nella sua struttura drammatica: un dialogo su Dio in cui la filosofia cede alle ragioni della teologia. Il mondo moderno è finito, occorre tornare al tempo della teologia. Non c’è pensiero che valga se non il pensiero su Dio. Solo il teologo conosce il sommo oggetto». Ma il Dio a cui allude Sgalambro sembra differire dal Dio «consueto» della religione e della teologia. Precisa Sgalambro: «Troppo a lungo la teologia è stata considerata una malattia senile della religione. Mentre quest’ultima è forse solo un accidente di quella. La splendida modernità della teologia è occultata da una filosofia miserabile. Quella voracità di realtà, degne delle grandi filosofie di una volta, oggi non ha più nome né cosa. La teologia la incarna degnamente».
Chi è, allora, il Dio di Sgalambro? «Forse – risponde Quinzio – pochi testi consentono di farsi un’idea della sicilianità e della sua complicazione come quelli di Sgalambro. Quest’ultimo libro riprende il suo vecchio tema del disprezzo e dell’odio dovuti al Dio spinoziano, coincidente con la «massa d’essere» di tutte le cose, e in quanto tale inevitabilmente e banalmente esistente. Il paradossale compito della teologia, per Sgalambro, è di annullare Dio. Ma questo è impossibile perché, come egli dice, volere il nulla è volere l’impossibile annullamento di Dio. Ma dell’annihitato, del farsi nulla di Dio, non parlava proprio la teologia? «Certo – osserva Benvenuto – vi è una prospettiva del pensiero teologico che non si attende da Dio solo l’appagamento. Per essa, il volto di Dio è inquietante e insieme scandaloso perché Dio ha scelto il nulla e con il nulla si confronta, il volto di Dio apre lo sguardo alla lotta dell’uomo con Dio, ma questa è una lotta antichissima che Giobbe stesso aveva già ingaggiato. La tonalità di empietà professata da Sgalambro, come lo sconvolgente pensiero di tradurre la trasvalutazione di tutti i valori, è un antico pensiero certamente non coltivato dalla teologia dei manuali. Evidentemente, è un lato sconvolgente della riflessione teologica che viene sempre occultato: chi vede in volto Dio muore».
Il Dio di Sgalambro, dunque, pare essere il nome del mondo per il pensiero, come chiarisce Baget Bozzo: «Un mero nome, certo, una vuota dictatio, ma che solo dà al pensiero il suo spazio. Dio è il mondo nella forma puramente astratta del pensiero. Ma l’esvere è il male: esso si impone come mero dato della mente, la cinge di ferri come una prigione. Occorre giungere al contemptus mundi. L’unico modo per la mente di arrivarvi avviene nella forma del contemptus Dei: Dio, nome dei nomi, pensiero del mondo rivelazione dell’infinita banalità dell’essere, della sua estraneità alla mente». Ma, domandiamo a Sgalambro, cosa c’è di più «reale» di Dio?
«Questo la filosofia deve imparare a riapprenderlo. Lo stesso scacco della gnoseologia rimanda alla teologia come gnoseologia che riesce. Questa sa individuare quel troppo di realtà senza nominare la parolina, “essere”, salvo nei suoi momenti di eloquenza. Una fredda scienza di Dio, ecco tutto. Eppure, non si sa ancora parlare di Dio senza svenevolezza, salvo nella teologia filosofica, un vero ferro fatto di legno mentre tutto richiede che si porti avanti, per così dire, una teologia teologica».
Dalle crepe dialogiche della stanca razionalità filosofica sembra così profilarsi una sorta di solipsistico pessimismo della teologia. Ma questa cupa aporia filosofico-teologica di Sgalambro è solo l’origine, o è invece l’esito di una serie indefinita di acuti argomenti in cui il rigore e la logica dominano accanto a un groviglio di assurdi e di paradossi? «Sgalambro cerca di scongiurare il suo evidente e dichiarato pessimismo, – precisa Quinzio – la sua dichiarata ed evidente malinconia, elevandoli al grado sommo della liberazione da ogni dubbio, alla certezza dogmatica dell’orrore delle cose. Solo nell’esercizio febbrile del pensiero egli trova gioia, ma è solo un emergere momentaneo del suo esagerato timore della morte. E tuttavia egli sogna il magnifico stato in cui, dice, “non esistessi, o esistessi solo per constatare che non vi ero”. Il suo solipsismo disdegna ogni interlocutore, ma qui sceglie la forma del dialogo, che è piuttosto, pseudo-dialogo all’interno di se stesso, perché, alla fine, anche il pensiero rivela la sua negatività».
Una ulteriore aporia nel ragionamento di Sgalambro viene colta da Benvenuto: «La riflessione di Sgalambro è fortemente intrisa di teologia rivelata, ma egli pretende di farne a meno. Molti suoi temi, come quello della kènosis di Dio, vengono presentati come un progetto teologico-filosofico umano, retto da istanze umane. Io sono perplesso perché nel suo pensiero manca l’elemento del Fatto, l’elemento dell’Evento. Anche il suo desiderio di cogliere Dio come una “parte”, è un atto della ragione che difficilmente può essere fondato». Baget Bozzo, invece, scorge qualcosa di altro dal pensiero del mondo e dunque da Dio: «Vi è l’affiorare improvviso del Bello e del Bene. I temi platonici tomano qui prepotenti: oltre l’essenza. Il Convito platonico, mai citato, è sempre presente. E sorge il richiamo allo gnosticismo antico, che sapeva che la croce del Cristianesimo era come conciliare il Dio dell’Antico Testamento con il Padre del Vangelo secondo Giovanni. Sono i temi che, con un linguaggio più ricco e più ortodosso, ha trattato Simone Weil. La violenza del mondo che sperimentiamo nella realtà mondiale e nella sua comunicazione universale rende inevitabile il tema di Dio e pone la teologia che esiste, come institutio clericorum, in difficoltà insormontabili. Anche il contemptus Dei è una forma per indicare la centralità del discorso su Dio. La teologia torna a essere regina delle scienze: ma essa oggi non esiste e testi come questo contribuiscono a reinventarla».
Ma per Quinzio piuttosto che di teologia o di filosofia, ci si troverebbe di fronte ad una psicologia, del resto dichiarata dallo stesso Sgalambro: «Tuttavia, al di sotto dei gelidi argomenti, trapela una pietà per le cose che forse Sgalambro tenta di respingere violentemente proprio perché ne patisce l’eccesso». Ma se Dio non è un oggetto per professionisti dell’ideale, bensì per teologi con un acuto senso della realtà, perché si torna oggi con insistenza a battere il tasto del sacro? Conclude Sgalambro:
«È a partire dall’essenza del sacro, si dice, che si può pensare daccapo Dio. Non si ha il minimo sentore che siamo invece nell’epoca dell’inversione di valore dell’oggetto della teologia. In questa nuova età teologica si crederà a Dio non in Dio. Le preziosità ontologiche di Heidegger non sono che divagazioni da maestro di scuola mentre al nomeo Dei condanno la sorte. Ma non tanto questo ci interessa qui, quanto l’assetto di questa scienza e la disciplina interiore di questo scienziato».