Gli artigli dei governanti

Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, X, n. 3, marzo 1993, pp. 30-31

Intellettuali e politica. Il filosofo non può accettare l’idea stessa che un altro possa rappresentarlo. Ecco per quale ragione

… mi inchino alla forza che scorgo dietro le leggi della società in cui vivo. Mentre alle ragioni con cui essa suole orpellare le sue decisioni io mi oppongo in nome della mia ragione e della noia che destano.

Ritornando a riflettere sull’idea di politica in relazione all’idea stupefacente di essere governati, credo che qui possa esservi una via privilegiata per trovare un bandolo in questa arruffata matassa. L’esperienza di essere governati traduce in realtà tutta la meraviglia che vi può essere in una simile esperienza. Se c’è una ragione della filosofia politica essa sta nel provocare questa meraviglia. Io mi devo sentire governato per potersi destare in me l’orrore per un simile stato. La finzione della rappresentanza politica non attenua la mia confusione.

Che un altro mi rappresenti lo trovo talmente assurdo che mi trovo a chiedere di essere rappresentato anche nella morte (ad esempio quando essa è comminata in nome della società) o in tanti altri atti altrettanto personali di quelli che il mio rappresentante politico ritiene tali. Né d’altra parte si può considerare salvaguardato e inattaccabile il principio della rappresentanza. Senza discutere le vie storiche per cui esso si è formato trovo che è necessario esaminarlo solo in rapporto alla mia ragione. Trovo infatti assurda l’idea stessa di rappresentanza. Mi avviene di ripensare al travaglio giuridico e politico attraverso cui si è arrivati alla legittimazione, ma la storia non trova presso di me sufficiente credito e bastevole autorità. E dunque l’idea stessa che un altro mi possa rappresentare che io non accetto. E non mi pare che ci sia differenza tra l’accettare di essere rappresentati in materia politica e l’altra di essere rappresentati in materia, ad esempio, di sapere. Questo imprime una accelerazione naturale ai miei ragionamenti e mi conduce a ritenermi esentato dallo stesso patto sociale. In altre parole io ne subisco la forza – Justiz und Polizei – davanti alla quale non mi resta che inchinarmi, ma non la presunta ragione che invece non riconosco totalmente. Come non trovo alcuna virtù il liberarmi di un eccesso di essere che proprio per questa abbondanza trapassa in altri.
Così non trovo alcuna ragionevolezza negli atti per cui io sono un cittadino ossequiente, pago le tasse, accetto insomma la società in cui vivo e le sue leggi. Ciò faccio solo perché la forza di questa massa bruta piegherebbe come un fuscello la mia esile individualità e l’annienterebbe qualora io mi opponessi solo sulla base della mia ragione. In ogni mio atto di ossequio alla società in cui vivo è timore e tremore. Io vivo sì in uno stato di società ma per me tale stato è come lo stato di natura hobbesiano. E le mani benedicenti dei miei governanti mi sembrano artigli pronti a stritolarmi.
All’interno di quegli Stati che portarono a buon fine le guerre civili confessionali del XVI e XVII secolo, ricordo di avere letto nello Schmitt: politica venivano definiti gli intrighi di corte, le rivalità, le fronde e i tentativi di ribellione da parte dei malcontenti. Tutto ciò, insomma, che portava disordine. Dicevo dunque che io mi inchino alla forza che scorgo dietro le leggi della società in cui vivo. Mentre alle ragioni con cui essa suole orpellare le sue decisioni io mi oppongo in nome della mia ragione e della noia che destano.
Intanto non è al lato politico della società che io affido la mia sicurezza. Ammesso che il compito della polis sia quello di assicurare la possibilità di una buona vita non sono proprio certo che vi riesca la politica. In ogni caso essa vi riesce meno di una buona polizia senza il cui influsso (mi rifaccio all’opera di Robert von Mohl, Die Polizei – Wissenschaft pubblicata in più volumi nel 1832-’33) il cittadino non potrebbe «condurre tranquillamente neppure un’ora della sua vita». Per ritornare alla questione circa un certo senso di assurdità che provo nell’essere rappresentato ciò mi pare possa dirsi dello stesso tipo della tesi per cui, secondo il cristianesimo, noi possiamo essere salvati da uno solo.
Mi sembra qui inappuntabile la dottrina pelagiana che svaluta la dottrina della redenzione e sostiene che Cristo opera solo col suo esempio. Mi sembra insomma che un certo atteggiamento pelagiano dobbiamo averlo anche nei confronti della dottrina della rappresentazione politica.