Giuseppe Testa in La Sicilia, 13 marzo 1993, p. 5
Incontri siciliani. Manlio Sgalambro
«Sono curiosissimo. Mi affascina l’ambiente umano. Ho sempre braccato gli uomini: non me ne sono fatto sfuggire uno solo»
«I nuclei delle idee fanno a meno dei libri. Verso i libri bisogna nutrire una certa dose di diffidenza. E’ necessaria e io credo di averla imparata»
L’adolescenza a Lentini tra le arance e letture furiose, voraci, disordinate. La grande avventura comincia con un viaggio a Monaco. «Poi incontrai un barbiere e un violinista fallito di una compagnia di operette..»
Catania – Facitore di aforismi agghiaccianti e forse ultimo dei metafisici di razza, malgrado una pessima opinione della metafisica, «stravizio d’intelletti turpi», Manlio Sgalambro abita un palazzotto di stucchi sbreccati su via Umberto. Qui il decumano si concede un’ansa di struggente prospettiva – lo slargo di piazza Vittorio Emanuele che i reduci della Catania felix, all’epoca dei chioschi, si ostinano a chiamare piazza Umberto – e ne rimane trafitto di arioso stupore. «Ma il verbo “abitare” è inesatto – osserva l’autore di Anatol, l’occhio perduto oltre il ballatoio dello studiolo, quasi una specola, due sedie di corda e nemmeno un tavolo, le scaffalature d’un trancio di libreria come antiche scansie di speziali – sì, credo sia inadeguato “abitare” nel senso comune di stare in permanenza in un posto. Eppoi, questo mondo non merita che ci si abiti dentro».
Si definisce «un catastrofista». È asciutto e agro, nel fisico e nell’eloquio, con qualche debolezza manieristica che sprizza nei discorsi pari a una purissima scintilla, e sa di nostalgia: dell’italiano ben parlato, sonante, che nessuno adopera più né più conosce. Viaggia pochissimo per un mondo che deve sembrargli troppo finito, ma legge in almeno cinque lingue. Non ama i salotti né i circoli e nessun genere di mondanità culturale. È schivo, appartato, introverso, ombroso, scostante. Un siciliano fatto di quella pasta grezza che, appena scrostata, rivela tesori nascosti, inattingibili. Uno di quei grandi siciliani contemplanti il proprio isolamento, dediti alla scrittura come a un vizio solitario: antipatici, dunque, al cultori del frastuono editoriale, al modo di Lucio Piccolo e Stefano D’Arrigo.
Ha moglie e cinque figli ed è arrivato la sessantott’anni senza esibire i capelli candidi, il portamento elegante ma non ricercato, quel fastidio innato per le apparenze, i fronzoli, i convenevoli: specie degli intellettuali dichiarati. Anzi, l’impressione è che detesti profondamente questo vocabolo – «intellettuali» – la gramsciana invenzione di una casta supponente, mentre usa la parola «filosofia» con una parsimonia che sconfina nel pudore.
Il suo primo libro – La morte del sole – pubblicato da Adelphi dieci anni fa, fu una rivelazione persino per gli addetti ai lavori. «Vorrei essere ricordato – dice sentendosi vocato a lavorare per cent’anni ancora – come uno che fece pensare. Immagino il pensiero, il pensare come un treno lanciato a folle velocità al di là di tutti i semafori, oltre tutte le barriere e gli steccati, assolutamente incapace di fermarsi al rosso».
Davanti alla finestra della specola, di primo pomeriggio, parla dietro le lenti abbrunite e non cessa mai di fissare la strada, i passanti, il capriccio delle nubi nel cielo della solita domenica italiana: vuota di clacson, gracidante di transistor.
Lei è nato a Lentini, professore, come Gorgia il sofista duemilaquattrocento anni fa. È là che ha incontrato la filosofia?
«Tra il ’44 e il ’45, non ricordo esatta. mente, nella Catania appena liberata, Leonardo Grassi stampava una rivista. Si chiamava Prisma. Gli mandai un lavoretto con un titolo pomposissimo: Paralipomeni all’irrazionalismo. Grassi lo pubblicò e, forse influenzato dalla straordinaria coincidenza dei luoghi, credette di rintracciare nel mio argomentare elementi gorgiani. Io credo invece che si sbagliasse. Non ho mai nutrito una gran passione per Gorgia e più di lui ho creduto nella fecondità del pensiero. Ma forse lei vuol sapere di Lentini, più che di Gorgia: della Lentini di quegli anni, i Trenta, di come un giovanotto potesse colà infatuarsi di certe cose…».
Sì, naturalmente.
«A Lentini avevo qualche podere. Arance. Bisognevoli della massima cura, della più grande attenzione. Ma avevo anche tanta voglia di studiare e poiché nella vita si può far bene una cosa sola, leggevo, leggevo… Da ragazzo Papini: come fosse un contemporaneo, eppoi gli autori del pragmatismo senza nemmeno collocarli storicamente. Nei Miserabili di Hugo mi sembrò d’immergermi come in qualcosa di totalmente estraniante. Finché vennero fuori I Buddenbrook e un viaggio a Monaco, indimenticabile, che mi dette i brividi. Io camminavo, capisce, sul selciato calpestato da Thomas Mann. Tutto era accaduto là, su quelle pietre. L’ideologia tedesca, la grande follia, il crepuscolo degli dei: tutto là – mi intende? – anche Spengler. Ma questo lo seppi dopo».
Dunque, lei viveva a Lentini come avrebbe potuto nel Nepal o nel Perù.
«No, questo no, è eccessivo. Nella mia iniziazione c’è un salone da barba e un teatrino da operette, giù al paese, un barbiere e il violinista fallito di una compagnia di giro. Mi insegnarono loro a gustare e a capire Miguel de Unamuno. Ricordo che battevano a macchina il testo e poi citavano a memoria interi passi. Ascoltarli fu per me una delizia ineffabile».
Molto felliniana come citazione, anche senza sciantose né ballerine. Però, non potendo campare di sole suggestioni, una volta abbandonati a se stessi gli aranceti dovette in qualche modo guadagnarsi da vivere. A Catania, filosofo in incognito, scrisse per anni le tesi di laurea degli altri. Visse cosi, lavorando su commissione, un tanto a pagina. Non era alienante?
«In principio fu una sorta di servaggio, ma a poco a poco mi abituai a considerarlo un vero e proprio lavoro. Un lavoro come gli altri, voglio dire. Sul mercato c’era una grande richiesta. Erano gli anni Sessanta, gli anni dell’impegno e della fantasia. Io facevo il bracciante: Manzoni giansenista, umanesimo di Marx, e via dicendo. Ci mettevo molta ironia, per fortuna. Del resto, facevo allora le cose più impensate».
Cioè?
«Non so… Ho fatto dei corsi per le assistenti carcerarie, tanto per dire. Insegnavo pedagogia, diritto, criminologia perfino. Mi pareva che tutto questo servisse, aiutasse, mi avviasse in qualche modo… Ero curiosissimo. Mi affascinava l’osservazione e la conoscenza dell’ambiente umano. Ho sempre braccato gli uomini. Non me ne sono fatto sfuggire uno solo. Avevo troppa fame di carne umana e non ne trovavo. All’università, nei partiti c’era troppa ideologia. Furono anni pieni di sorprese, per chi sapesse attraversare i mondo alla Candide, ma gli uomini bisognava cercarli negli anfratti, nei pertugi».
Un atteggiamento socratico. Possiamo dire così?
«Se vuole. Ma soprattutto un ausilio immenso. È vero: la filosofia si incarna nei libri, nel libro. Eppure – come potrei spiegare? – lo sguardo del filosofo, i nuclei delle idee, infine, fanno a meno dei libri. Anzi, verso i libri bisogna nutrire una certa dose di diffidenza. È necessaria. Io credo di averla imparata».
Sarà perché di libri ne ha letti tanti o perché se ne stampano troppi?
«Non è questo… È che viviamo un momento alessandrino e il libro è diventato un oggetto ambiguo. È strano: avviene proprio nel momento in cui maggiormente se ne esalta la fattura, la bellezza, l’importanza e tutti si infervorano a convincere tutti a leggere più libri come a consumare più mortadella. C’è come una fretta deprimente… Provi a entrare in una libreria o anche in una biblioteca. Quando mi capita, sono sempre più perplesso, più diffidente. È come se leggessi sui muri, a grandi caratteri, una legge non scritta: “Tutti i libri sono uguali”. E non è vero, non è vero».
E Borges? E la biblioteca di Babele? E il libro infinito che contiene e assomma tutti i libri scritti e quelli ancora da scrivere?
«Per conto mio, sono lontanissimo da suggestioni simili. In definitiva io desidero, sì, desidero che non ci sia affatto un luogo dove i libri vengono raccolti. Vorrei che piovessero da qualche cielo, i libri, per puro caso. Perché incocciarne uno è come imbattersi in uno spicchio di paesaggio, come incrociare una donna fascinosa…».
Ci racconti qualcuno di questi incontri fortunosi, uno di questi colpi di fulmine.
«Qui a Catania, una bancarella, vicino al vecchio teatro Sangiorgi, e un signore che ricordo intabarrato perennemente in un pastrano scuro. Noi studenti lo chiamavamo “il nonno”. Su quel trabiccolo potevi trovare di tutto: un titolo, un’emozione, un’eccitazione… Poi ci sono libri che tu sai che esistono, li cerchi per una vita intera e non li trovi, non si trovano da nessuna parte. Non ne ho mai provato disillusione».
Crede che la civiltà del libro, la civiltà della parola scritta, sia destinata a scomparire? Crede che, prima o poi, ci arrenderemo alla piena televisiva? Beniamino Placido, che di televisione se ne intende, sostiene che la pubblicità sta al nostro tempo come il linguaggio del mito ai tempi di Omero. La pensa così anche lei, professore?
«Sono molto interessato ai linguaggi spuri: il rock, le discoteche. Scrittori come Tondelli e altri non fanno che assemblare questi idiomi, un po’ come Turgenev fece con le nuove lingue del suo tempo in Padri e figli: un collettore di nuove idee correnti che non è un romanzo. Ma poi tutto fini in Dostoevskij. Ecco, bisogna aver pazienza. Può darsi che si tratti solo di aspettare il nostro Dostoevskij».
Se davvero venisse fuori, sapremmo riconoscerlo?
«No. Così come non sapremmo riconoscere un Kant. Non abbiamo gli strumenti per farlo. Siamo troppo avvezzi non a vedere Kant pensare, ma a narrare il pensiero di Kant. Filosofare e un evento d’eccezione, quanto alla storia della filosofia è più attendibile, ma in certo senso più ordinaria. Si può tranquillamente continuare a ruminarla».
Che significa: la filosofia è un fatto eccezionale?
«L’eroe del pensiero c’è stato. Io l’ho venerato. Eroico è questo darsi per intero al pensiero che pensa, eroico è capire che i confini ci sono ma occorre superarli. Passare da un filosofo a un altro è sempre stata per me una sofferenza. Io c’ero stato dentro e doverlo lasciare per un altro mi sembrava un po’ una ingratitudine».
È una metafora, come dire, piuttosto carnale della filosofia…
«È la filosofia, è il pensare, il problema del pensare. Un evento pericolosissimo se si introduce in una normale attività e ne interrompe il corso. Prenda il macchinista di un treno. Egli sa che, a un certo punto, deve valicare un ponte. Ci sono una serie di segnali da rispettare, un insieme di comandi da azionare una
catena di anelli da seguire in ordine preciso. Tutto andrà bene. Ma adesso immagini che il macchinista, mentre guida il treno, si metta a pensare al ponte. Inevitabilmente penserà che il ponte può crollare. Perché tutti i ponti, prima o poi, crollano. Questo è la filosofia: vedere l’altra metà delle cose. Cupa, nera. tetra. Che vuol farci?».
Le dispiace almeno un po’ vedere sempre l’altra metà delle cose? Non le pesa, qualche volta, la filosofia?
«Dispiacere non è il termine esatto. Vorrei controllarla un po’ meglio questa cosa che a volte mi scappa di mano. Ma perderne totalmente il controllo, questo no, proprio no. Non dimentico mai di pensare e non mi auguro una società dove si metta da parte il pensiero».
Come reagisce quando la filosofia le scappa di mano, quando la trascina troppo lontano?
«Esco, vado fuori, cerco i luoghi più affollati, la fiera soprattutto, per essere in mezzo alla gente ed esserne urtato, magari: io che non sopporto i contatti fisici».
Questo è davvero molto strano. Può dircene di oit?
«Non è pudore, non è vergogna e non è neppure il senso cristiano della carne. L’accostarsi di due corpi, la vicinanza fisica è la consacrazione di qualcosa. Avviene per passione o per violenza, almeno potenziale. Per il resto, vale ripetere l’apologo degli istrici che sentivano freddo e si strinsero l’un l’altro fino a che non si punsero. Conclusero, allora, che è meglio patire il gelo che non trafiggersi a sangue».
Come vive in Sicilia? Come vive la Sicilia?
«Ne sento l’incertezza, la precarietà, l’indefinibilità. Dunque, ci vivo e la vivo ottimamente. Viaggio su una nave in procinto di arenarsi. L’insularità, la condizione d’isolano, mi dà più di qualsiasi altra cosa la sensazione di essere un contemporaneo. In questo tempo ruinoso è come trovarsi nell’occhio di un naufragio. La Sicilia – ma non tutte le isole, non la Gran Bretagna, per esempio – è un emblema di tutto ciò che significa il mondo: del precario, del vago… Io cerco qualcosa di cui non mi possa fidare».
Per la verità, anche l’Italia può essere oggi metafora del transitorio. C’è un Ancien régime che affonda, c’è odor di ghigliottina, ma non si capisce bene chi o che cosa verrà dopo la strage. In ogni caso, una rivoluzione è in corso. O no?
«Se per rivoluzione s’intende la sostituzione, il ricambio o il tentativo di cambiare una intera classe dirigente, bene: quanto avvenne, in definitiva, anche con la Rivoluzione francese. Si ha voglia di cambiare i dirigenti e, dunque, i dirigenti rubano. Voglio dire che i parlamentari inquisiti per corruzione e per reati simili sono in tutto quarantuno. La gente, però, vede l’istituzione, vuole abbattere la Bastiglia. C’è un clima di festa. Gli italiani vivono queste giornate in uno stato festivo diffuso».
Lei non ha certo l’aria di uno che partecipi alla festa. Del resto, non si è mai impegnato in politica né avventurato su quel terreno, diversamente da molti suoi colleghi: Bobbio, Cacciari, Veca… Perché?
«I disagi di cui ha sofferto la filosofia italiana sono dovuti alla politicizzazione che l’ha privata dello sforzo speculativo. Eppoi, dei filosofi italiani ben pochi hanno fatto politica apertamente, i più in maniera indiretta, mascherata, tartufesca. Tutti pronti a rimproverare al grande Heidegger la breve parentesi dell’adesione al nazismo».
Sgalambro è un teorico del pensiero breve. Ma gli altri? Perché non c’è più nessuno che tenti di spiegarci il mondo, di farne un’architettura comprensibile, un sistema perfetto e conchiuso?
«Per la stessa ragione per cui non c’è più il grande romanzo, la grande poesia. Perché viviamo ancora lo scoppio, l’emorragia che c’è nell’Ulisse di Joyce. Un romanzo esploso, una totalità ch’esplode e diventa frammento, la nota che diventa il testo. È il momento dei poligrafi che non solo scrivono più cose, ma tentano più generi. Il tempo nostro aborrisce il sistema filosofico. Quanto a me, ne parlo, sì, ma come di una meta, di un sogno o di un diletto».
Mai avuto cattedre
Come Gesualdo Bufalino, ha resistito a lungo alle lusinghe del torchio tipografico. Ha pubblicato tardi, a 57 anni, il suo primo volume, La morte del sole, dove sta scritto che il mondo procede comunque verso la dissoluzione termica. Sei anni dopo è uscito il Trattato dell’empieta, un libro che Sciascia definì «vertiginoso». C’è chi lo considera una delle voci più lucide nello stitico orizzonte della filosofia italiana, eppure Manlio Sgalambro non ha mai avuto una cattedra di ruolo: nemmeno in un liceo di provincia. Curioso destino per un uomo che, come si dice, ha letto tutti i libri. Ma forse non troppo strano per uno studioso circonfuso di un’aura quasi misterica. Di sé disse una volta: «Avrei voluto essere soltanto uno sguardo».