Manlio Sgalambro in Antonio Di Grado, Grandi siciliani. Tre millenni di civiltà, Maimone, Catania, (❓) 1992, v. 1, pp. 29-31
Consideriamo i frammenti dei presocratici. Sono frammenti o rovine? Corpi cozzati contro il tempo distruttore, dei quali sono rimasti pezzi soltanto? Immaginiamo il tempo come un immane ostacolo. Il corpo presocratico urta violentemente contro di esso e si frantuma in mille pezzi a volte bizzarri . Bizzarri perché se guardiamo i frammenti rimasti, vediamo che a volte essi sono idioti, sciocchi, stupidi: si vede che non ha agito il logos ma non si sa che.
L’effetto è simile a quello di un incidente dove il cadavere assume pose grottesche, con le braccia che mai si sarebbe potuto immaginare che potessero ciondolare a quel modo, con le gambe piegate in fogge impensabili: nessuno avrebbe mai pensato che il corpo potesse atteggiarsi in modo così ridicolo. L’idiozia di alcuni frammenti presocratici, ridotti a informe balbettio, ristabilisce meglio il senso della rovina. Di ciò che è rimasto dopo l’immane urto. Il presocratismo – è il suo limite – non coglie quanta idiozia vi vede in ogni momento il logos. Non rispetta il rovinio, ciò che divennero a causa del tempo. Si delega soprattutto a coglierne lo stato aurorale, pieno di fluidi arcani: l’inizio. Il presocratismo ha risparmiato finora Empedocle. Esso equivarrebbe a parlarne ‘grecamente’. A restituirgli i colori dell’aurora. Si tratta di vedere il mattino del pensiero dice Heidegger. Questo filosofare è diventato nel frattempo maniera. I brividi degli inizi non colgono il filosofo smaliziato che vede invece il ‘destino’ del pensiero in ciò che esso è diventato. La malinconia dei colori sbiaditi, la patina di vecchio, il pallore del pensiero che fu: lo attira il morto nel pensiero non il vivo. Si ricordi, il rapporto con un filosofo del passato è rapporto con un cadavere.
Siamo nell’età del mondo: questo muove a pensare Empedocle. L’odio dell’uno, in cui egli vede il suo principio, disintegra lo Sfero beato – il mondo è opera dell’Odio, dell’Odio crudele e furioso. Empedocie non fa cenno a un mondo frutto dell’Amore. Il mondo è fatto di odio. Nell’Amore il mondo si demonizza e scompare, scompaiono i furiosi contrasti e il vano molteplice. L’ordine dell’amore conduce allo Sfero. L’ordine dell’odio al mondo. “Annuncio un duplice discorso. A un dato momento l’Uno si formò dal molteplice; in un altro momento si divise e dall’Uno sortì il molteplice. Vi è una doppia nascita delle cose periture e una doppia distruzione. La riunione di tutte le cose porta una generazione all’esistenza e la distrugge; l’altra cresce e si dissipa quando le cose si separano. E queste cose non cessano di cambiare continuamente di posto, riunendosi tutte in una a un dato momento per l’effetto dell’Amore, e condotte in un altro momento in direzioni diverse dalla repulsione dell’Odio. Così come è nella loro natura passare da molti a uno e divenire ancora una volta molti quando l’uno è disintegrato, esse entrano nell’esistenza, e la loro vita non dura”. L’amore non può dare luogo al mondo, ma alla fine del mondo. Man mano che l’Odio subentra nello Sfero, l’amore ne esce e si origina il mondo che perciò è interamente costituito dalla contesa, dal dissidio dall’odio. L’uno empedocleo è la forza che tiene unito lo Sfero. Lo Sfero infatti, secondo Empedocle , è una mescolanza. Secondo il possente affresco di questa testimonianza antica: “Per Empedocle, il mondo si estinguerebbe secondo l’alterna prevalenza dell’Odio e dell’Amore. Altri invece dicono che alternamente verrebbe a costituirsi e si estinguerebbe lo stesso mondo, e di nuovo venuto di nuovo si estinguerebbe, e che eterna sarebbe una tale successione come Empedocle che dice dell’Amore e dell’Odio, che avrebbero a turno la loro parte di prevalenza: l’Amore concentrerebbe tutte le cose nell’uno ed estinguerebbe il mondo dell’odio e da questo produrrebbe lo Sfero; l’Odio a sua volta disaggregherebbe di nuovo gli elementi e produrrebbe il mondo così com’è”. Qual è allora il problema di Empedocle? Né quello dell’essere né quello coevo del divenire, intesi nella loro spettrale identità. Il suo problema è il farsi e il disfarsi del mondo. Se il mondo una volta nato, può finire, il problema della fine del mondo è altrettanto urgente che quello del suo inizio.
Anzi, per Empedocle, è il solo problema che conti. “A partire da Anassimandro, Eraclito ed Empedocle, fino alla tarda stoa – scrive Heimsoeth ne I grandi temi della metafisica occidentale – è sempre riapparsa la dottrina della periodicità del mondo, di una successione illimitata di mondi in un tempo senza interruzioni, sì che ad ogni tramonto si ricollega immediatamente una nuova genesi cosmica”. In realtà questo paradigma nella filosofia moderna si è smarrito; non è più, dopo la stoa, uno dei grandi temi della metafisica occidentale. Anzi non è più visibile nemmeno presso i greci dove, come nota Olof Gigon, è del tutto ovvio (Problemi fondamentali della filosofia antica). Tuttavia, per chi voglia sentire da questo orecchio e non la solita campana, Kant, dei moderni, è colui il quale vive nella perpetua visione di Umsturzungen und Ruinen, di sconvolgimenti e rovine e per un nulla, si può dire, la fine del mondo non diventa il tema centrale delle sue riflessioni. Per lo più è rimasta incompresa la sua posizione dagli studi iniziali sulla distruzione della terra agli accenni sulla fine del mondo nella tarda Das Ende aller Dinge (La fine di tutte le cose, 1794). Sia che la terra finisca per l’ostacolo opposto dalle maree alla rotazione terrestre, rallentandola sino a fermarla, o che invecchi e muoia (alt zu werden und zu ersterben) per il progressivo esaurimento (Ermattung) della forza stessa (Weltgeist), il problema si colloca in quella della fine del sistema i cui rintocchi si sentono nella grande Storia generale della natura e teoria del cielo. L’apparente assenza di tutto ciò dalla Critica della ragione pura va contro di essa. In realtà la “fine del mondo” è presa nel giuoco della duplicità teoretico-pratica della ragione e viene smistata a una grande etica futura che tratterebbe solo di essa. Il problema, considerato da Kant nella sua qualità di scienziato (Naturforscher), non trova invece posto nella fondazione filosofica della fisica, nella Critica della ragion pura, perché ne contraddice il presupposto, la conservazione della ‘forza’ contro la quale il risultato della ricerca fisica un tempo testimoniò. Ci aspetteremmo a questo punto che, come per l’idea di mondo, Kant trattasse l’idea della sua fine almeno nella Dialettica trascendentale, ma essa è esclusa a priori dal novero delle idee nel senso di questa. Anche se potrebbe annidarsi nella stessa antinomia cosmologica. Nella sospensione critica del dibattito tra tesi e antitesi, l’intervento risolutore dell’interesse architettonico richiede espressamente un’origine non una ‘fine’.
Così ingloriosamente si chiude la Critica della ragione pura. Mentre la Teoria del cielo, almeno idealmente, si congeda più degnamente con la morte del sistema solare. Tuttavia è lecito pensare che se la ‘fine del mondo’ non entra nella Dialettica trascendentale è perché essa non è una semplice idea alla cui stregua quindi Kant non la considera.Neikos e logos
Kant non diventò il filosofo della fine del mondo. Empedocle finì per non esserlo. Questo problema si trascinò dimenticato e fu praticamente impossibile una lettura coerente di Empedocle. Indicativa è la posizione di Empedocle nei confronti del logos eracliteo. Il neikos, infatti , si contrappose al logos. Non alla sola philia. L’interpretazione heideggeriana del Logos come Versammlung, come riunione-unione nel senso del riunire-raccogliere perché unisce (o raccoglie insieme) l’uno e i molti, consente di precisare il neikos come l’elemento opposto, come ciò che disunisce. L’Odio è la disunione. Non solo ciò che si oppone alla philia ma ciò che si oppone al logos. Il quadro è maestoso. Si susseguono, dunque, l’etere che si disgrega per primo, si smembra quindi il fuoco e quindi la terra, dalla cui rotazione sprizza l’acqua che esala l’aria e poi il cielo dall’etere, il sole dal fuoco… Disunendosi questi elementi per l’odio reciproco formano questo mondo. Il sorgere e il perire dei mondi è perenne.
Il paradigma tracciato da Empedocle deve dunque inquadrare sia il sorgere che i perire cosmico. Sia l’essere che il divenire perdono la loro consistenza poetica che ancora conservano in Parmenide ed Eraclito e diventano il bruto darsi di cose. L’essere è “il sole caldo a vedersi e luminoso tutto, e i corpi immortali (gli astri) che si irrigano di ardore e di vampa candente e la pioggia che dovunque obnubila e gela e la terra, infine, donde sgorga tutto quanto è saldo e compatto”. Tutto ciò è gettato, dice Empedocle con una immagine maestosa, “sugli scogli, dal mare della vita”.
La possente descrizione della periodica genesi e distruzione cosmica si muove sul filo di uno sguardo impassibile solo talora venato dalli amarezza del vivere. Il poema fisico è magistrale anche poeticamente, non legnoso come il poema parmenideo. Tuttavia composto e degno.
Ma nel poema lustrale, nelle Purificazioni, si fa avanti lo sdegno per il mondo: “scoppiai in un pianto e un gemito alla vista dell’inconsueto luogo”. La ‘fine del mondo’ è la tappa estrema dell’Amore : un sogno vano. L’eterno ciclo non ha soste e non ci si sottrae a questo “luogo senza gioia, dove Assassinio e Odio e i popoli delle altre Sciagure, Morbi disseccanti e Putrescenze e fluidi prodotti, per la plaga erbosa di Rovina trascorrono nel buio”.
Da “quanta ampiezza di felicità”, scandisce Empedocle, si proviene a questo mondo! Rivestiti “d’un manto di carni sconosciuto”, che era un tempo io fui e giovinetto e giovinetta, arbusto ed uccello e pesce muto che di tra i flutti guizza”. Ecco perché la fine del ciclo diventa per Empedocle il punto assolutamente determinante del suo pensiero. Non è l’inizio il vero problema. L’impianto di un interrogativo mortale è qui, è la domanda rivolta – a chi? a nessuno – sulla fine desiderata: la fine del ciclo. Ma la risposta inesorabile delle cose è negativa.Biografia
Più che dell’uomo e della sua vita – le sue date più probabili vanno dal 495 al 435 a.C. – è del personaggio che rimangono degli aneddoti e alcune centinaia di versi e frammenti su 5000 versi, quanto venivano stimati. Gli aneddoti dovrebbero deporre a favore di Empedocle, “grande leader democratico di Agrigento”, scrive il grande storico Burnet sorridendo. Di ciò che fece da questo punto di vista, nulla v’è di chiaro. Ma sulla sua ‘democraticità’ nessun dubbio come se un filosofo non fosse ‘tiranno’ proprio in quanto filosofo. E non è vano ricordare che Parmenide, nel suo poema, aveva detto: “Io ti comando che l’essere è e che il non essere non è”. Testo che troviamo conservato. La fortuna, il destino, il caso, chiunque sia fece bene a farlo.
Gorgia afferma, riporta Diogene Laerzio, di avere visto il suo maestro operare magia. Ma nelle Purificazioni tutte le vie si aprono, e devono quindi tentarsi, che possano portare alla liberazione. La meta è liberarsi dalla catena della nascita. Sprigionarsi dall’‘essere’ come il lampo dalla folgore. “O amici, che la città grande che scende fin giù al biondo Akragas / abitate lasso sull’alto contro, in opere buone occupati, / venerandi ancoraggi di stranieri, di cattiveria inesperti, / salve! Ed io tra di voi dio imperituro, non più mortale, / m’aggiro tra tutti onorato, siccome è giusto, cinto tutto di nastri e di ghirlande fiorenti”. Queste non sono parole di un “cicalone da pubblica piazza” come lo ebbe a chiamare Timone di Fliunte, ma l’esulanza di un liberato. Nella biografia di Empedocle vengono fatte rientrare da Aristotele l’invenzione della retorica e da Galeno quella della medicina. Entrambe guariscono ecco il punto comune . L’una con le parole , l’altra con l’equilibrio degli umori.
La sua morte reale differisce da quella leggendaria. La nota leggenda lo vuole precipitarsi nel cratere dell’Etna. Questa storia – trovata poi romantica – nelle fonti è sempre raccontata con intenzioni malevole. In realtà i suoi seguaci raccontarono, veramente, che era stato assunto in cielo durante una notte. Di fatto, Empedocle non è morto in Sicilia e meno che mai nei modi anzidetti. Si vuole che si sia recato a Olimpia per recitarvi il suo poema religioso e i suoi nemici siano riusciti ad impedirgli il ritorno in Sicilia. Sarebbe morto, dunque, nel Peloponneso. Egli fu l’ultimo dei filosofi-poeti greci (i poemi che passarono sotto il nome di Pitagora si possono trascurare) a esporre in versi un sistema filosofico dopo Parmenide. I frammenti che ci restano ci restituiscono un’immagine più intensa della poeticità che si ritrova in Parmenide e per ❓