Dell’indifferenza in materia di società

Manlio Sgalambro in aa.vv., Titus di poesia. 6, (maggio) 1992, pp. 13-21

Tieni l’altro a distanza. Accetta, o dagli, un bicchiere d’acqua. Riassettagli la stanza e tiragli su le coltri. Ma tra questi atti e lui resti il deserto. Non c’è motivo particolare per cui fai questo. Non c’è motivo particolare per cui fruscino le foglie di un ramo spinte dal venticello. Questi atti provengono da chi sa dove. Così devi intenderli. Tu dunque non hai nulla a che fare con lui e se occorresse potresti egualmente montargli su coi piedi e anzi se ti è necessario il suo grasso per ungerti gli stivali, prenditelo.

Che tu abbia bisogno del cibo, non ti induce certo ad adorarlo o a rispettare in maniera particolare chi te lo fornisce, siano gli altri o gli orti e i frutteti o gli atti con cui te lo procuri. Esalteresti quei moti attraverso cui evacui, o il budellino con cui te la spassi? È come il suolo su cui poggi i piedi – non lo adori di certo. Nella più perfetta indifferenza – non ti ama di sicuro – ti sostiene, consente i tuoi passi. E tu lo ripaghi della stessa moneta…

Bisogna che ci sia chi trascina il cocchio e chi vi sale ed è portato. Che se la tengano, la società. Rimanga per gli stolti che in essa e di essa si appagano. Ne traggono ispirazione e ispirano. Sbrigano, senza accorgersene, servizi e se ne servono. E producono quella ricchezza che rende splendido l’Eden a chi è nato solo per suonare il flauto. Sì. Che essi lavorino e si affannino, sudino e si abbrutiscano perché un altro tragga una nota o porti a perfezione un concetto.

La società ti tiene in mano. Ti costringe ad avere rapporti. Tiene pronte relazioni come trappole in cui cadi sicuramente – amicizia, amore… -. Essa si fa mantenere, insomma, e ti spreme il sangue e ti butta poi, vuoto involucro, da parte. Buttala tu, prima.

Abbiamo i piedi immersi in questo catino. Ma che più? Vuoi forse affogare, immergervi anche la testa? Non sai trovare il varco da cui uscire da questo imbroglio. O meglio, poiché uscire non si può, entra in te. Lì non trovi nessuno ad attenderti. O piuttosto, trovi te stesso. Come se donassi te a te. «Nulla», ti si dirà additandoti le meraviglie che ti circondano, e gli amici, e le donne, gli onori, la fama, il potere sugli altri (cioè su nessuno, se non è su te stesso). «Tutto», tu rispondi.

Il giorno in cui dirai: mi è indifferente mio figlio; e tuo figlio: mi è indifferente mio padre, si sarà aperta una tale falla nella società che potrà entrare l’acqua lustrale e portarsi via tutta questa fanghiglia…

Quando la società è caduta nell’indifferenza anche ciò che appariva un crimine si dilegua. Il furto? Non lo giudicherai più cosa grave ma lo spostarsi di un bene da un individuo a un altro. Cosa è accaduto infatti? La società non ha perso niente. Ciò che prima aveva l’uno ora lo ha l’altro. Daresti dunque più importanza a Pietro piuttosto che a Paolo? Ciò che fu giusto o ingiusto prima, è giusto, o ingiusto, ora.

Paolo, l’albero da frutto, quella nuvoletta azzurrina, sono tutti cose. Non distinguere, come i pazzi, quell’uomo da quel pezzo di carta stropicciata.

Fuggiamo dunque dal carcere della società. Ciò non significa stare appartati in un cantuccio. Ma passiamo attraverso essa senza che i nostri sandali la calcolino. Essa è il terreno che calpestiamo per camminare, che ci fa stare eretti, o che sia. Ma chi se ne cura? L’altro, poi? Non più della sedia su cui ti siedi, della maniglia con cui apri la porta… Non averne cura maggiore che per queste cose. È malato, cioè è guasto? E tu lo aggiusti. Nulla di più.

Vedi? Lì passa quell’uomo dal volto emaciato o quell’altro, sembra che l’abbia colpito un fulmine… Non trascorre ora che non vedi malati, poveri, miseri di tutti i generi, che non ti vengano portati davanti agli occhi come di proposito. Perché tu sia buono, umano… Ebbene, qui ti voglio. Lasciali ai loro mali. Così volle la sorte. Passa oltre.

Pratichiamo l’insocievolezza. Allontaniamo il simile con modi sgarbati. Trionfi la dissimiglianza. Chi mi è simile? A chi sono simile? Si senta il tuono della tua collera al solo sospetto.

Non ci si accorge ancora del riprodursi della società come cosa maligna, quando invece per tempo ce se ne rese conto della natura. La società si riproduce ciecamente, trae da uomini e cose altri uomini e cose e qualsiasi piano si abbozzi tosto essa lo rompe e dilaga come se avesse una esistenza propria che pendesse come una mannaia sul capo di tutti. È la propria esistenza che infatti le interessa. Essa pensa solo a esistere e basta. Che per di più debba essere giusta ecco una pretesa in cui si mostra di non avere capito nulla della sua natura.

Cosa tenga unita una società, anche questo si è lasciato dietro molte risposte di cui restano le macerie. Ora come ora, la società sembra solo una lunga abitudine. La sua durata, com’è prospettata anche dalle migliori teste, sgomenta. Ognuno viene duramente richiamato a dare il suo quotidiano contributo. Chi vi si sottrae è l’asociale al quale la società mostra il suo vero volto o, peggio, la sua assistenza comprensiva. Le sue carceri pullulano di ladri ed assassini ai quali insegna il concetto di libertà che essi conoscono bene, e per questo sono dentro. Ma sarebbe non avere capito niente attribuire tutto ciò alla sua «ingiusti-zia». Essa è quello che è. La società non è «sociale».

Insisto, non sprecare la vita che ti resta per un altro. O ti volgi a lui come a un albero, sì, curalo, cioè procuragli ciò di cui ha bisogno, potalo, fai ciò che gli occorre. Ma stanne lontano. Mantieni ferma la tua distanza. Che ti siano più prossime le stelle – che il tuo prossimo.

Contrai, sia pure, vincoli sociali, sposati, sii padre, lavora, ma con apatia. Sii, fin quando non ci sarai del tutto, come se non ci fossi. Considera la società come la natura. Verso cui la tappa successiva dello spirito, non appena eresse il capo, espresse disprezzo. Abbilo ora verso la società. Tieni con la punta delle dita le cose che la concernono, pronto a buttarle via con schifo.

«L’indifferenza per la società la lascia intatta. Tutto continua come prima». Ma che ci importa? Noi badiamo alla nostra unica vita e diamo solo esempi.

Niente fervore sociale. Sperimentiamo il principio di aridità sino in fondo.

Nelle Epistole erotiche Crisippo porta l’indifferenza a temperature incandescenti senza bruciarsi: la dea Era con la bocca vicina al membro virile del padre Zeus. (Non alludeva Zenone, egli dice, a questa indifferenza assoluta?)

Verso gli affetti sociali sopravviene nell’indifferente una gelida apatheia. Essi sono al più morsus et contractiunculæ; fugaci moti in cui ancora sussulta il ricordo delle catene. L’indifferenza davanti al delitto è la maturità raggiunta, Il livore o il pianto, la banale giustizia, non reggono rispetto ad essa. Il giorno in cui non ce ne importerà più, oltretutto, esso scomparirà. Lo fugherà l’indifferenza stessa.

Bisogna guardare la società come si guarda la natura dalla quale ci percepiamo ormai svincolati. Notiamo, sì, questo contorno, alberi, animaletti che strisciano o insetti che ti ronzano attorno, l’acqua di un ruscello che scorre, ma che ce ne importa? Lo sguardo passa su di essi come su un levigato marmo, senza che qualcosa lo fermi. Allo stesso modo si percepisce il proprio stare eretti, e il complesso rapporto, ripeto, con le leggi che regolano la gravità, eccetera, non ti è certo presente in persona, insomma essi sono caduti nell’indifferenza e quando diventano tematici sono un’altra cosa. Così lo sguardo maturo si poggia sulla società. Gli esseri che ti passano accanto non ti importano più degli insetti, e i rumori del giorno si confondono, per dir così, con il più lontano cielo. Percepisci voci, risa, sì, ma queste differenze non sono ciò a cui tu punti, ma all’indifferenza. Alla più banale unità in cui tutto è mischiato con tutto. Le varie funzioni, quelle economiche, amministrative, sanitarie, quelle politiche, eccetera, non vengono colte più dall’attenzione. Come le varie funzioni «naturali», digerire, evacuare, a cui non va certo la coscienza ma si svolgono in un individuo nella più perfetta apatia. Ma allora come si butta del cibo in pasto ai cani così tu puoi buttare una tua azione, un gesto, a quell’individuo. Che lo si chiami bene, a dir vero, ne stravolge il senso. Ma non basta, agli occhi di costoro, che tu faccia qualcosa, bisogna anche che sia buona. Ciò che conta invece è che questa azione provenga dall’indifferenza. A te non interessa quell’uomo, il suo stesso volto sfuma in un volto universale, o piuttosto vacuo e generico. Ma dall’indifferenza per lui proviene il gesto che gli butta un atto, ripeto, come si butta un osso al cane. Ed anche che questo si chiami bene o no infine è indifferente.