Patrizia Curatolo in La Sicilia, 11 novembre 1992, p. 26
Un personaggio, una città. Manlio Sgalambro apre la nostra galleria sottolineando la specificità del suo vivere, pensare e scrivere ai piedi dell’Etna
«Avverto la destinalità di un luogo perché io non sono soltanto al mondo ma abito in un punto. Dunque, il mio essere nel mondo non è soltanto essere ma abitare. Sono radicato a Catania e tutto quello che qui avviene non è un semplice accadere».
Un destino sortito dal caso o da un evento comunque bruto, è per Manlio Sgalambro vivere ed essere a Catania e qui pensare, perché la mia specificità» dice il filosofo, «non è vivere, questo lo condivido banalmente con tutti, ma pensare».
E non è detto che ovunque si pensi allo stesso modo e che allo stesso modo il pensiero si converta in scrittura: «Io ho scritto i miei libri a Catania: ciò non è semplicemente accaduto. Avrei potuto pensare questi libri in Brasile e in Venezuela, mа intanto questo non è avvenuto. Un pensare si è sviluppato solo a Catania».
Mentre fuori dallo studio di Sgalambro Catania si agita convulsa e rumorosa senza permesso invade uno spazio assolutamente privato, chiediamo al filosofo se, come Milano per Savinio o Buenos Aires per Borges Catania gli ha mai rivelato il suo cuore.
«Catania ha un cuore?», risponde pacato. «A me non interessa il cuore di Catania ma la sua essenza».
Essenza, chiamata da Sgalambro anche metafisica «a fortiori e con un po’ di sfida al buon senso», che si ritrova nei suoi scritti. «Quello che di Catania si è trasferito nei miei libri è qualcosa di impalpabile che si è polverizzato depositandosi nella mia scrittura e nel mio pensiero. Si può coglierla tuttavia, sparpagliata, diffusa, disseminata. Ecco perché per me Catania» continua il filosofo, «non è un luogo neutro ma è l’orizzonte, il mondo».
Attraverso un gioco di dimensioni, dunque, il mondo si può ritrovare proiettato in Catania?
«Sì, perché da un certo punto di vista Catania è collocata all’infinito, ma da un altro l’infinito in qualche modo si raccoglie qui. Qui appare al filosofo lo spirito del mondo come a Jena già apparve a Hegel. E con “qui” non intendo qualcosa di astratto».
È questa per Sgalambro una consapevolezza che, ci confessa, ha acquisito col tempo: «Fino a quando non ho riflettuto abbastanza ho ritenuto che Catania fosse un luogo neutro, un luogo uguale a un qualsiasi altrove. Poi ho capito che questo altrove era puramente astratto e immaginario perché poi, di fatto, io qui pensavo».
In un’altra occasione Manlio Sgalambro ha dichiarato di amare la folla. Ma, com’è la folla catanese?
«Io amo in genere la folla. Mi piace perché mi offre il senso del non esistere, o meglio di essere parte di una poltiglia. Per una delle mie perversioni intellettuali» ironizza il filosofo, «amo diventare una pappa e sperdermi. La folla catanese è anonima, molto anonima e quindi dà la possibilità di entrare in essa e perdersi».
Questo accade anche se si considera Catania come regno dell’invivibilità?
«Quale sforzo fa il catanese per renderla vivibile? Il Catanese» continua Sgalambro, «la chiama invivibile solo perché si ferma a mezzo. È lui ad avere il respiro corto, non Catania».
Questa città, dunque, «slabbrata, frastagliata, in una situazione emorragica di continua dispersione», nonostante il costante allontanamento da un ipotetico centro si lascia ancora cogliere da orecchie sensibili.
«Mi piace ascoltare di notte i mille brividi che danno le viuzze oscure. Parlerebbero queste se fossero splendidamente illuminate?».
Dobbiamo ammetterlo, con la luce paradossalmente andrebbero oscurate quelle emozioni che, per un quid insondabile si trasformano in meditazioni: «Catania fa pensare. Non so cosa sia, ma c’è qualcosa che induce ad un atteggiamento di meditazione e che fa avvertire echi lontani. Non si pensa solo in biblioteca e Catania è una città, forse perché meridionale, che ancora fa raccogliere in se stessi».
Quale elemento ci diversifica da chi abita al nord?
«Noi abbiamo ancora tempo, o meglio temporalità» sostiene il filosofo, «al nord l’uomo si è trasformato in spazio».
Dalle parole di Sgalambro cogliamo evidente la predilezione verso ciò che legato al tempo, lascia tracce di decadenza inesorabile. Come quando Sgalambro ci parla dell’odore di Catania: «L’odore di questa città è per me quello di marcio e putrefatto del porto. Mi riporta alla mia putrefazione. Ma non c’è amarezza, piuttosto qualcosa di lievemente dolce».
Ma allora Catania sta morendo?
«Il fatto che ci viva così bene, deve essere dato da qualcosa di questo genere» conclude sorridendo.