Le provocazioni del filosofo

Manlio Sgalambro in Cronache Parlamentari Siciliane, IX, n. 10, ottobre 1992, pp. 16-17

Politica e cultura. La ricerca del buongoverno possibile nell’analisi spietata di Manlio Sgalambro

Apprendiamo da Weber che «l’ordinamento capitalistico è un enorme cosmo, in cui il singolo viene immesso nascendo e che gli è dato, per lo meno in quanto singolo, come ambiente praticamente non mutabile, in cui è costretto a vivere». Le cose per il singolo non sono fin qui cambiate di molto. Proprio perché i limiti alla comprensione di Marx furono per lo più assegnati dalla prassi incalzante, questo aspetto è misconosciuto, ma Il Capitale si deve collegare, dal punto di vista politico, con Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer.

Tra i due, del resto, vi è più di un’affinità. In ogni caso, mentre la successiva caduta della metafisica e il conseguente filantropismo venivano salutati come un progresso che sarebbe consistito essenzialmente nel non riconoscere nessun potere estraneo all’uomo, anche per la critica dell’economia politica come per il grande esponente del pessimismo mondiale era un «fatto empirico» che gli individui fossero stati sempre asserviti a un potere generale a loro estraneo. Marx è dunque metafisico ma in altro modo che in quello in cui lo si accusa falsamente, eppure con ragione, di esserlo. All’umanità illuminata egli rivela che un’essenza maligna, «von Kopf bis Zehen, aus allen Poren, blut- und schmutztriefend», «grondante sangue e lordura dalla testa ai piedi, da tutti i pori», ne trama il destino. Così gli individui vengono rigettati nel loro presente da cui non riescono ad allontanarsi di un passo.
Che in esso si produca valore di scambio e che questo produca valorizzazione del valore; che entrambi producano capitale il quale a sua volta produce entrambi: tale è il destino a cui, come individui, siamo legati. Fato lo chiama lo stesso Marx. Fatalismo, anzi, si potrebbe chiamare la vera essenza di una simile teoria. In ogni caso è il lato fatalistico che oggi può essere valido. Esso fu condannato alla svelta in nome delle esigenze più varie e da una prassi assassina; mentre lo impone invece la pressione del capitale man mano che si accumula sopra le loro teste e si rende indipendente dai singoli da esso trattati, dice sempre Marx, come «ruote dell’ingranaggio».
Lo stesso concetto di vita, dopo lo spreco che se n’è fatto in politica, non è più usabile se non si tiene conto di tutto questo. Appropriato resta ciò che ne disse Horkheimer: «La vita generale nasce ciecamente, casualmente e iniquamente dalla caotica attività di individui, industrie, stati. Questa irrazionalità si esprime nel dolore della maggior parte degli uomini».
È merito di Horkheimer avere ripreso, fin nell’accento, riflessioni da tempo interrottesi o finite in miserabili diatribe. Che ogni critica della società – ogni filosofia politica – possa essere perciò dispensata da una critica della vita si rivela illusorio. Senza un giudizio sulla vita non c’è filosofia politica. L’orribile e cieco riprodursi della società rimanda l’immagine di quella natura che la natura ha, da tempo, cessato di essere. Accenti di tenerezza per l’individuo, per la sua grama sorte, che la società, oltre l’opaco universo, sembra dunque anch’essa evocare, dovrebbero essere presenti nella riflessione politica ove quest’ultima diventasse veramente partecipazione alla sorte comune. La sorte di una specie gettata in un universo insensato dovrebbe motivarla non meno che l’essere gettati in una società ingiusta.

Vero, la società dovrebbe salvarci dall’universo che ci ingoia. Ma cosa ci salva dalla società? Si ricordi la famosa asserzione: nella comprensione dello stato di cose esistente è inclusa la negazione di esso («in dem positiven Verständnis des Bestehenden zugleich auch das Verständnis seiner Negation, seines notwendigen Untergangs einschließt», Karl Marx, Das KapitalNachwort zur zweiten Auflage).
Qui il passaggio a un metodo, che dovrebbe peraltro essere l’espressione della sofferenza, avviene al contrario nella maniera più indolore possibile. Tutto conclude nella «saggezza» che ogni cosa che nasce deve perire. Il che è esatto, ma moriamo prima noi. La politica ci inganna per essenza, dunque. La promessa, «una società degna dell’uomo», si beffa da sé. Quale società potrebbe essere degna di quest’uomo, quale società egli merita, se non quella in cui è? La politica è la metafisica pour la canaille che tiene così legata al guinzaglio.
Tuttavia potrebbe esserci in essa un dolore per l’uomo che desta stupore in chi gli pare di avvertirlo. Un dolore, per così dire, dall’alto in basso. In un’epoca di freddezza, verso questi individui gettati nella società come un ennesimo inganno lo sguardo politico diverrebbe compassione. Questo è altresì il punto archimedico che libera il pessimismo politico dall’ipoteca pessimista.
Se ogni teoria sociale è diventata ridicola ciò ha la sua spiegazione non nell’adattamento allo status quo, ma addirittura nell’adattamento al mondo che la critica «sociale» ha mascherato per lungo tempo. In questo senso essa è illusoria più di quello che ne sarebbe l’oggetto. Solo gli scribacchini si occupano ancora di critica sociale.
Essa continua solo perché altrimenti diverrebbe obbligatorio chiedersi se si può ancora vivere. E ciò in generale. Per questi uomini gettati in un universo che esige puntualmente la loro morte, «società» dovrebbe essere, nel suo limite estremo, ciò che li accomuna in nome dell’estremo destino e li difende dall’oltraggio del vivere medesimo. Dalla politica non ci si aspetta un futuro ma che, qui e ora, ciascuno guardi l’altro con pietà. Ogni gioachinismo sociale va collocato nella sfera del «collasso» dell’intelligenza europea.
Essa non sa più «vedere». Il sapone illuministico l’ha ripulita dai pregiudizi ma anche dalla capacità di giudicare.
La partita politica si giuoca qui e ora. Il futuro è degli altri. Noi siamo noi e non l’umanità. O per lo meno il concetto che sembra vincere e che lo sguardo politico «vede», è quello di una «umanità» discontinua. Noi non ci sentiamo più continuati dall’umanità che verrà. Una politica del futuro è dunque una politica che non ci riguarda.

L’umanità come concetto ancora usabile si frammenta in una serie di umanità che si danno in simultaneità, non nella durata. Il genere umano è fatto solo di pochi (così potremmo parafrasare il verso di Lucano: «Humanum paucis vivit genus» che De Maistre giudicò massima terribile ma giustissima). L’umanità è data volta per volta. Di questa umanità tutta presente sono pure presenti i limiti: sofferenza e morte contro cui invano cozza il «futuro».
La pietà che proviene dalla religione non ha più alcun senso. Essa passa sul nostro capo senza lasciare segno. La pietà non si può infatti disgiungere dal potere. Solo la pietà di chi «può» è vera pietà. Solo la politica oggi si può annettere dunque legittimamente la compassione. Non vogliamo più dire altro. Le linee della politica che immaginiamo ci sembrano ispirate e non indegne. Una politica rude, potente, capace di compassione…