Cesare Milanese in Avanti!, 8 agosto 1992, p. 17
I Chierici

Manlio Sgalambro, filosofo catanese, come dicono i giornali. Impervio il suo pensiero, scostante il suo carattere, inavvicinabile. Per farlo reagire pubblicamente, al di fuori dei suoi libri (La morte del sole, Trattato dell’empietà, Del pensare breve, tutti di Adelphi), ci è voluta la dichiarazione estremistica del professor Gianfranco Miglio dopo l’uccisione del giudice Borsellino e della sua scorta; lo Stato abbandoni la Sicilia ai siciliani. Sgalambro concorda. Non per estremismo politico, ma per estremismo filosofico. Infatti egli legge la dichiarazione di Miglio come un «dettato» della terribilità delle cose e la considera inevitabile. Nessuno dei due vuole apparire paradossale. Si esprimono alla lettera. Miglio, quando minaccia la lolla armata, sa quel che si dice. È fuori posto quando crede che il suo mandato provvidenziale sia quello di scrivere le Lezioni di politica pura, «al cui confronto Il principe di Machiavelli – è sempre lui che lo dice – sembrerà un’opera per educande» (La Stampa, 16 luglio, intervista di Claudio Altarocca). Ma è certo che non manca di lungimiranza nel prevedere la caduta degli irrealismi in politica. Il che finirà per travolgere anche lui; ma questa, per il momento, è tutta un’altra questione. Per ora la sua «uscita» suona cosi paradossale da risultare del tutto extrapolitica. Ed è proprio per questo che Sgalambro, il filosofo più lontano che sì possa immaginare dalla politica diretta, la assimila. Vi si mette al di sopra e la riduce a prova della sua teoretica.
Intanto l’auspicio di rottura violenta, propugnato da Miglio, gli conferma un’immagine che già aveva espresso per conto suo: «La Sicilia è un’isola che aspetta paziente di inabissarsi». Ciò si ricollega a una famosa invettiva di Pasolini, rivolta però a tutta l’Italia: «Sprofonda nel tuo bel mare, libera il mondo!». Pasolini riecheggiava Dante; ma in questo Dante si comportava da teologo. Anche Sgalambro è «teologo». Certo si tratta di grida che nascono dall’ira, che è una delle cause della poesia. Ma per Sgalambro deve essere causa anche della filosofia, per lo meno delta sua. Ira accompagnata da odio. Il famoso odio teologico. Verso che cosa? Verso il non senso della realtà come tale, che, percepita globalmente, significa la totalità e la sua idea: cioè Dio, che è la personificazione dell’indifferenza del mondo nei confronti del soggetto. Chi è Dio? Colui che non appare. I perché definitivi non appaiono mai. Da qui il sentimento proprio di ciascun essere: l’ira nei confronti di tale insensatezza. Il punto cruciale della filosofia per Sgalambro, come per Pascal o Kierkegaard, non è l’ontologia, ma la teologia. Dice: «Se ieri non vi fu teologia senza pratica, si potrebbe affermare che oggi non vi è teologia senza ira. Quest’ultima svolge il ruolo della pratica dove la pratica non svolge più ruoli. La rabbia di essere è collera teologica; come se ce l’avesse con qualcuno». Si sostituisca il termine di «pratica» con il termine di politica e allora si vedrà che il professor Miglio parla con il linguaggio che Sgalambro si aspetta. Ecco perché Sgalambro si è, in questa occasione, politicamente pronunciato: «Almeno in una cosa Miglio ha ragione: quando invita lo Stato a lasciare Palermo, e i siciliani a “vedersela tra loro”. Infatti noi abbiamo davvero bisogno d’esser messi con le spalle al muro». Marzio Breda, intervistandolo per il Corriere della Sera (31 luglio), gli ha chiesto: «Una simile cultura fatalistica, del naufragio, sottintende una sorta di “diversità” dei siciliani. Ma siete sul serio una eccezione antropologica, per cui meritate dallo Stato strategie differenziate rispetto al resto del Paese?». Risposta di Sgalambro: «Sì, siamo un popolo in un certo senso diverso, quanto alla morale, almeno. Se qualcuno dovesse qui riscrivere la Critica della ragion pratica dovrebbe chiamarla Critica del delitto, poiché il fare corrisponde ormai al delitto». Aggiunge: «Non so che cosa sta per succedere. Però ciò che più mi preoccupa è la crisi delle élites nel Paese, di ogni élite. Specie di quelle intellettuali, che dovrebbero formare un tessuto connettivo tra le masse e i partiti, che dovrebbero fornire idee su cui discutere. L’intellighenzia siciliana, poi, è in piena afasia, incapace di parlare e di far parlare di noi come di un popolo».
«Un buon filosofo guarda senza muovere un dito» egli dice. Non è suo obbligo agire, ma collocarsi al centro dei concetti. Basta questo per orientare in modo conforme al senso dell’equilibrio l’insieme di coloro che formano la congerie del popolo: ma allora il concetto da mettere al centro è quello dello Stato, meno ossessivo di quello teologico di Dio, altrettanto rigorosamente formale, e dal punto di vista dello stesso Sgalambro, più consono all’umano, quale esso è. La prospettiva è hegeliana, inaccettabile sia per Sgalambro che per Miglio. Tuttavia è proprio lì che convergono le loro estremizzazioni: nel loro capovolgimento.