Abbandonateci, e noi siciliani reagiremo

Marzio Breda in Corriere della Sera, 31 luglio 1992, p. 12

L’intervista / Manlio Sgalambro, incompreso da molti conterranei, spiega le sue teorie su come uscire dalla crisi che distrugge l’Isola

Il filosofo catanese: Miglio ha ragione in una cosa, dobbiamo essere messi con le spalle al muro

Catania – «Almeno in una cosa Miglio ha ragione: quando invita lo Stato a lasciare Palermo, e i siciliani a “vedersela tra loro”. Infatti noi abbiamo davvero bisogno d’esser messi con le spalle al muro, ormai. Di essere abbandonati a noi stessi, alla nostra cupezza e alla nostra disperazione. Solo così potremo forse trovar la forza reagire, senza aspettare sempre i Redentori che vengono da lontano. Per cui alle autorità di Roma io dico: non aiutateci più, tantomeno con l’esercito, perché altrimenti qui tra poco spirerà di nuovo aria di Vespri. Non aiutateci perché abbiamo semmai bisogno di esser trattati male. Fino a quando ci sarà dato un dito, noi lo succhieremo: tutta l’Isola è ancora ferma a uno stadio infantile, in una situazione amniotica, come se non fosse completamente nata. Così, lasciateci provare a nascere, non aiutateci…».
Il filosofo catanese Manlio Sgalambro distilla un’altra delle sue teorie «scintillanti ma disfattiste», come le giudicano molti dei suoi conterranei, e per provocazione arriva a mutuare i suggerimenti eversivi dell’ideologo della Lega. Settantenne solitario e quasi inavvicinabile, anche per via di un carattere aspro e scontroso, sinora ha sempre monologato per iscritto, attraverso i libri che pubblica con Adelphi (La morte del sole, Anatol, Del pensar breve sono gli ultimi titoli). Stavolta, dopo i fatti di Palermo, accetta di svelare a un giornale, e a caldo, i propri umori. Nerissimi.

Professore, in una sua celebre definizione lei diceva che questa è «un’Isola che aspetta impaziente di inabissarsi». Una simile cultura fatalistica, del naufragio, sottintende una sorta di «diversità» dei siciliani che ricorda il giudizio di Miglio. Ma siete sul serio una eccezione antropologica, per cui meritate dallo Stato strategie differenziate rispetto al resto del Paese?

«Credo che oggi, con quel che ci accade intorno, occorra un po’ esagerare, per vedere la realtà. Comunque sì, siamo un popolo in un certo senso diverso, quanto alla morale, almeno. Se qualcuno dovesse qui riscrivere la Critica della ragion pratica dovrebbe chiamarla Critica del delitto, poiché il fare corrisponde oramai al delitto. Il resto è non-fare. Sto calcando le tinte, ma non troppo».

Insomma: hanno ragione quelli che vi vorrebbero abbandonare al vostro destino?

«Forse bisognerebbe abbandonare la Sicilia, lo penso pure io. Rifletta su un dato: tutti i siciliani chiedono l’intervento dello Stato, come se lo Stato non fossero anche loro, come se un pezzo di questo Stato non fosse già qui. È un altro nostro tipico atteggiamento, perché ci si appella costantemente agli altri. La realtà è che dovremmo riconoscere di essere nelle mani di noi stessi, e di nessun altro. Il recupero di questa terra non avverrà mai attraverso l’e-largizione di speranze o di parole o di elemosine. Maturerà solo quando saremo con le spalle al muro».

E i tumulti popolari ai funerali di Palermo? Molti vi hanno visto un salutare soprassalto della città. E lei?

«Mi è venuta in mente la presa della Bastiglia. Che ebbe valore non tanto per i dieci prigionieri che furono liberati, quanto perché riuscì a fondere insieme una sparpagliata marmaglia. Una fusione emozionale, momentanea: questo è successo ai funerali. Era da molto che non si verificavano eventi del genere e non conta chi fosse considerato come “nemico”, se il governo italiano o la mafia stessa. L’importante è che quel momento sia giunto. Un evento salutare, d’accordo».

Dell’arrivo dei soldati che cosa pensa?

«Ne ho visti tanti, di militari, marciare per queste strade. Tedeschi, americani. Ma le immagini di questo ultimo sbarco mi hanno indotto a nuove prospezioni, a indovinare un futuro che avverto oscuroe angoscioso. Ho paura che dopo i soldati vengano altre parole d’ordine per una moralizzazione forzata, tipiche di certe svolte politiche. Ogni cambiamento autoritario è preceduto da questi “angeli”, da questi annunciatori. È una fase sconcertante».

Al Nord i partiti sono delegittimati da un’inchiesta della magistratura, al Sud sono delegittimati dal fatto che lasciano ammazzare proprio i magistrati. Che cosa sta per succedere?

«Non lo so. Però ciò che più mi preoccupa è la crisi delle élites nel Paese, di ogni élite. Specie di quelle intellettuali, che dovrebbero formare un tessuto connettivo tra le masse e i partiti, che dovrebbero fornire idee su cui discutere. L’intellighenzia siciliana, poi, è in piena afasia, incapace di parlare e di far parlare di noi come di un popolo».

Se è per questo, anche lei, biasimato sovente di ultrapessimismo, se ne sta sempre in disparte.

«Benedico Dio di non aver a che fare con l’Italia e con la Sicilia, almeno dal punto di vista politico. La mia funzione, se ne ho una, è di lanciare un certo tipo di sguardo, il resto lo facciano gli altri. E se parlo, assieme ad altri, troppo poco, questo fa da pendant con la passata ed eccessiva garrulità di altri siciliani. Cerchiamo piuttosto di vedere se da un tale silenzio possiamo trarre più idee e se gli altri riescono, loro, a tirarsi fuori dai guai, ma da soli. Perché, ripeto: noi reagiamo solo se siamo nella disperazione, nelle situazioni limite. Ecco perché non mi è parsa così barbara la questione aperta da Miglio. In essa vi è forse una intuizione di ciò che è il siciliano. E non so se servirà rinforzare con le divise la presenza dello Stato o se sarà un guaio, come temo. Lo vedrete tutti: fra non molto i siciliani dei Vespri si cominceranno a svegliare, tutto questo esercito se lo sentiranno addosso, dopo averlo chiesto. E reagiranno».

Davvero questo dobbiamo attenderci?

«L’unità di popolo intravista a Palermo è destinata a disperdersi, per il momento. E forse poi a riemergere».