Giancarlo Liuti in Il Resto del Carlino, 7 luglio 1991, p. 4
Avvocato mancato, ex cameriere, coltivatore: lo scrittore siciliano Manlio Sgalambro continua a far parlare di sé (terzo libro)
Funerario, distruttivo, solipsista, agro, masochista, sadico, arrogante,superbo. Fu con questi aggettivi cupi e malevoli che nove anni orsono la critica accolse il catanese Manlio Sgalambro al suo debutto ne La morte del sole (Adelphi). Il giudizio non cambiò neanche dopo, quando vennero, sempre da Adelphi, Trattato dell’empietà (1987) e Anatol (1990). Né cambierà adesso, con l’uscita del suo quarto libro: Del pensare breve, ancora Adelphi, pagine 148, lire 14.000. Sgalambro, infatti, non ha abbandonato quel suo pessimismo ferale che lo induce a immaginare un cammino a ritroso della storia, cioè un’irrimediabile decadenza del mondo («Noi non siamo lontani migliaia di anni dalla distruzione, come ci dice la fisica. Siamo anzi nella situazione dell’uomo primitivo, che non sa se l’indomani sorge il sole» e lo fa esser pessimista perfino sui pessimisti: «Essi vogliono la realtà cattiva, ma la teoria buona».
Tuttavia è mutato il timbro, il tono, il senso di quegli aggettivi: prima erano ostili, ora sono ammirati. E si comincia a riconoscere che nel panorama non propriamente luminoso dell’odierna letteratura di pensiero (dovremmo dire filosofia, ma i filosofi di professione storcono il naso), Sgalambro rappresenta un raro punto di luce dell’intelligenza. Insomma, sarà pur dominato da quel «sentimento di morte» in cui Gesualdo Bufalino vede le stigmate della sicilianità, ma è fra i pochissimi che oggi sappiano condurre la coscienza del lettore a esplorazioni non sciocche e non futili dell’animo umano.
Nato a Lentini nel 1924, Manlio Sgalambro vive a Catania con la moglie, che fa l’assistente sociale, e con cinque figli. Professione? Lettura, più che scrittura. Sin da ragazzo ha letto moltissimo, divorando la biblioteca di uno zio avvocato. Filosofi, soprattutto: Spinoza, Kant, Hegel, Schopenhauer, Husserl. Uno «studio matto a disperatissimo», come quello di Leopardi bambino. Uno studio che l’ha profondamente segnato, distogliendolo per sempre dalle questioni pratiche del lavoro, del guadagno, del farsi largo nella società. Ha frequentato giurisprudenza, ma non giunto alla laurea. Ha fatto il cameriere, poi s’è messo a compilare tesi universitarie, infine ha ereditato un agrumeto che tuttora gli procura del reddito. Adesso scrive libri, ma col piacere incontaminato e segreto di chi li scrive per se stesso.
Rivalutando il «metodo ipocondriaco» (l’insofferenza, la noia, l’aritmia) che Hegel disprezzava, Sgalambro si esprime a fiotti di «sangue blu del pensiero»: frammenti, schegge, aforismi, svelti esercizi – spesso funambolici, sul filo tesissimo di uno stile fatto cristallo – della mente e del cuore. Punta al vero? Sì, ma con scetticismo: «Vi sono pensieri che danno l’impressione di essere definitivi, che non vi si possa aggiungere né togliere niente. Proprio per questo non si sa che farne. Impacciano». Oppure: «Oggi che la verità non “è” ma “si fa”, qualsiasi imbroglione l’ha sempre sulla punta della lingua e una filosofia serve, al più, a farne un’altra». Diffida del presente? Sì, ma non ama il passato: «Non si può essere reazionari, perché non c’è dove tornare, e non si può essere progressisti, perché non c’è dove andare». Oppure: «Anche ciò che è vecchio viene rimesso a nuovo. Il cosiddetto reazionario si inventa un passato come il parvenu si inventa gli antenati alle Crociate. Il passato è, per entrambi, l’ultima novità». Crede nella filosofia? Sì, ma non come risultato. Semmai come azione, ovvero l’ebbrezza tormentosa del filosofare: «La voce della disillusione ammonisce che la filosofia non è in nessun luogo e non è nemmeno il mondo. Essa è solo un libro. Se ci si chiede. dunque, dove esiste una filosofia bisognerà infine rispondere disperati: sulla carta, come un quadro sulla tela».