Dignità all’uomo oltre le illusorie speranze del mito

Ruggero Puletti in Avanti!, 14 giugno 1991, p. 11

Gli approdi della ricerca esistenziale di Sgalambro

Poco o nulla si sa della vita e della formazione di Manlio Sgalambro. Conoscemmo la sua prima opera La morte del sole pubblicata dalla Adelphi nel 1982, successivamente il Trattato dell’empietà (1987) e Anatol (1990).
Ma soltanto ora davanti a questa raccolta di aforismi Del pensare breve (1991) avvertiamo l’esigenza di compiere un bilancio complessivo dell’opera di un «filosofo a-sistematico che dimostra tuttavia una genialità che è difficile trovare in pensatori che seguono il modulo tradizionale della ricerca». Per la struttura e i temi della sua opera la tentazione è quella di avvicinare Sgalambro ad Elias Canetti de La provincia dell’uomo ma in maniera più puntuale al Cioran di Squartamento e de La tentazione di esistere.
Tra i più vicini a noi (ma lo spessore è maggiore e minori le divagazioni moralistiche) ci sentiremmo di fare il nome di Ceronetti. Insomma anche per Sgalambro, così come nel campo della narrativa per Gesualdo Bufalino, si può parlare di un uomo che ha coltivato in solitudine la filosofia e ha voluto offrircene il frutto quando è pervenuto al di là dei 60 anni. Egli dimostra cosi un totale disinteresse per la fama e un appena contenuto disprezzo per le scuole filosofiche e le discutibili eredità di un pensiero che si fregia di titoli accademici, più che di risultati pregnanti.
D’altronde Sgalambro è convinto di questa sua «eccezionalità» quando scrive: «Perché mi ostino a definirmi “filosofo” benché né i filosofi mi vogliono né io voglio loro? Perché in questa disciplina, nella sua venerata regola, entrai fanciullo e mai non venne. meno la mia fedeltà. Per più di 50 anni l’ho studiata non distratto da altro. Ne ho carpito segreti e reticenze, ho visto esaltazioni e declini, eccessi e dimenticanze. Filosofi sull’altare poi scagliati giù. Ho assistito al loro regno, e al dominio delle loro idee, e l’ho studiato più che quello dei duci e dei condottieri.
«Ho avuto amori duraturi, ho imitato modelli (ma come si può imitare l’idea, ahimè). Sono invecchiato li dentro. Di essa conosco tre o quattro cose meglio del miei contemporanei. Non ho altro da aggiungere».
Per noi c’è quanto basta per una prima collocazione. In primo luogo la lotta al sistema. Anche Sgalambro in tutte le sue opere si è battuto contro la pretesa di chiudere il mondo in parentesi, contro la forma totalizzante del pensare in cui dovrebbero rientrare gnoseologia e metafisica. filosofia della natura e storia, estetica ed etica. È bene aggiungere subito che non ci stupiremmo affatto se. domani, dal suo cassetto uscisse una pièce teatrale o un romanzo; egli infatti, esercita la felice contaminazione tra filosofia e letteratura. E non soltanto per il rigore, l’essenzialità dello stile che ci appare inconfondibile. Da questo punto di vista egli sembra il frutto di una terra che annovera il Gorgia del Palamede e del Elena il Pirandello della ricerca sull’umorismo e, ancor più, quello che discute di relativismo conoscitivo e oscilla tra la negazione assoluta e le tentazioni del panteismo.
Poiché le riflessioni brevi, incisive, prive di ogni alone di oscurità, muovono sempre dalle esperienze compiute in prima persona, si può anche aggiungere (ma la definizione è ormai logora) che Sgalambro appartiene al filone dell’esistenzialismo negativo. Ma la filiazione è diversa da quella che ha messo in carta Jean-Paul Sartre. Questi è partito da Husserl. ha ricevuto sollecitazioni (soprattutto a contrasto) da Heidegger ed è approdato ad una sorta di difficile sintesi tra esistenzialismo e marxismo.
Si spiega cosi l’engagement, le battaglie politiche, e il fallimentare bilancio conclusivo. Sgalambro sembra che non sia mai uscito dalla mitica caverna platonica: sa la natura reale delle ombre, ha continuato a parlare con sé stesso, non ha mai creduto alla Città del Sole, ma soltanto privilegiato il rapporto coi libri, anche se nessuno di essi ha elevato alla dignità del Libro. «Non vi ingannate dal miele che scorre dalla bocca di chi parla di libri. Chi esiste per leggere vi può dire ben altro. Ma pure cosi vale la pena di esistere, solo per leggere un libro, per vedere gli immensi orizzonti di una pagina».
Per questa ragione, se da un lato non ha creduto di sfuggire alla pena del vivere con la trascendenza religiosa (come Kierkegaard e Marcel), dall’altra non ha mai pensato che il mutamento della condizione umana possa venire dalla trascendenza rivoluzionaria. Da qui il disgusto per i miti d’accatto e per quella filosofia che egli definisce «monumentale». «Quand’è che una filosofia si deve dire monumentale? Quando non si può né disfare né rifare e lo stesso maestro ne è discepolo e deve apprenderla come uno qualsiasi, buttato in ginocchioni».
Non è dunque un caso se i suoi «maestri» sono Schopenhauer e Nietzsche, e gli avversari quanti inclinano verso l’ottimismo o perché credono nella perfettibilità dell’uomo (e quindi della società a cui ap-partiene) o perché incapaci di trovare una logica spiegazione al dramma umano e ricorrere cosi alle complesse costruzioni teologiche che umiliano la ragione con la fede. In realtà la filosofia costruita con la ragione è la sola che meriti rispetto, «l’accostamento all’opera filosofica è un momento devozionale. I tempi dell’accostamento vanno scanditi da uno spirito genuflesso».
Vorremmo aggiungere che lo Schopenhauer è un «educatore» (parafrasi di un’opera giovanile dello stesso Nietzsche) non tanto e non solo con Il mondo come volontà e rappresentazione, ma piuttosto con quei Parerga und Paralipomena che costituiscono anche un modello di questo «pensare breve». La brevità del pensare che può essere considerata anche una propedeutica al silenzio sottolinea la definitiva dissacrazione di quelle filosofie che hanno puntato sulla centralità dell’uomo e hanno preteso di individuare una sorta di teleologia della storia la dove non c’è invece che ripetizione e caos.
Mentre il pensatore sistematico irride (lo fa Hegel citato da Sgalambro) chi muove nella ricerca dal sentimento, considera che al massimo la sua speculazione può aspirare ad essere «talento poetico», Sgalambro considera l’ipocondria «un dono del cielo», l’unico punto di contatto che gli è rimasto con la realtà. Il suo «sangue blu».
Siamo dunque sulla linea del Kierkegaard del Diario di un seduttore di Aut anche se manca persino la personificazione delle tre fasi dell’esistere con le quali il pensatore danese tentò di dare un minimo di sistematicità alla sua ricerca. La melanconia non è ancora l’angoscia esistenziale, ma è fuor di dubbio che anch’essa è, per Sgalambro, una «danza sugli abissi».
La melanconia è la cifra della solitudine, quella che non si può vincere con le forme banali del dialogo che e pur sempre la «chiacchiera». messa alla berlina anche da Heidegger. «Ci si trascina di notte per le vie e si parla tra se. Il dialogo alligna di giorno e risuona dei suoi traffici ignobili. Di notte si monologa. Come dei re».
Al massimo si fa uscire da sé per arricchirsi attraverso la prova dell’amore, ma soprattutto a mezzo dell’amicizia se essa si fonda sul comune sentire, sui modi uguali dell’esistenza, su fini comuni da raggiungere: «L’abitudine di un lungo sodalizio, resta il momento in cui culmina, appagata, l’esistenza in due. Nel filosofare in due non c’è maestro né discepolo». Si potrebbe pensare dunque che l’attività filosofica riscatti la vita, e le dia un ordine, insomma la giustifichi. Ma come in Pirandello quando si è capito il gioco non resta che l’ironia acre su sé stesso e sugli altri, così per Sgalambro «in ogni conoscenza c’è qualcosa di marcio». «Oggi il conoscitore leale non si nasconde, sa perfettamente il fatto suo: è per il tuo male che lo faccio, egli dice».
Da qui l’affermazione secondo la quale la «cupezza dell’animo, quella profondità tenebrosa che Tacito trova nei tiranno», caratterizza anche il filosofo. Questi, soltanto in virtù del residuo sentimento. può sfuggire al cinismo. In un contesto siffatto è fatale che la morte assuma un posto centrale. Sgalambro non esita ad affermare che nel nostro tempo lo stesso termine di «morte» richiama «nostalgicamente il tempo in cui l’uomo poteva dirsi veramente vivente». Oggi l’uomo è semplicemente distrutto: per questa ragione non c’è bisogno di nessun manuale di «Ars moriendi».
Nell’assoluta mancanza del divino nell’opera di Sgalambro (non si dimentichi la sua analisi sulla empietà) si oltrepassa e si ribadisce l’affermazione schopenhaueriana. Il filosofo di Danzica aveva affermato: «Se un dio avesse creato il mondo, io non vorrei essere quel dio, i dolori del mondo mi strazierebbero il cuore».
Sgalambro afferma: «Noi tutti siamo assassinati». Postosi su questa strada non può certo compiacersi di quello che gli altri considerano testimonianza del costante progredire dell’umanità. «Si diventa vecchi perché è prefissata nei piani degli Stati moderni una vita lunga e da pecore. Una vita vuota e interminabile sottolinea il progresso degli Stati e ne è un fiore all’occhiello. Mentre è sempre meno chiaro in generale perché si viva, si prolunga la vita proprio per questo». Ma la capacità di resistere alle delusioni e all’usura del tempo nasce dal fatto che fummo, sia pure per lo spazio di un attimo, ragazzi.
In questa capacita di volgersi indietro Sgalambro si concede al sentimento e rivela la rara capacità di coniugare rigore razionale e poesia: «continuiamo a vivere perché fummo fanciulli felici. Anzi, solo perché una volta fummo fanciulli. Allora mettemmo da canto questa ricchezza che ora andiamo spendendo. Ne fecero parte la tenerezza, le carezze che ricevemmo, lo stesso ritmo del sonno che ci cullò. Le voci care, le prime impressioni del sole e delle stagioni.
«Tutto questo, man mano che lo andiamo spendendo, si esaurisce. Così la nostra vita». Stessa situazione sentimentale nelle pagine in cui si parla del luogo natale o allorché si chiede con chi egli passerà gli anni ultimi della vita. E questo il momento in cui l’ateismo si fa più umile, diventa agnosticismo e la negazione si attenua. «Un tempo era raccomandato come sinonimo di accorta prudenza nelle cose della vita e di fiducia nell’andamento del mondo l’aspettare. In effetti non si viveva tanto da vedere ciò che si a-spettava e ciò faceva morire con i sogni intatti. Oggi in alcuni decenni ci siamo spesi i sogni accumulati in più di un secolo e nessuno di essi valeva uno sputo. Quanto a noi – siamo ancora qui».
Ma l’impressione ultima che la lettura di queste pagine ci lascia (si pensi alle riflessioni sul Parlare, le considerazioni sulla meditazione solitaria, al tema della dissacrazione dei valori e a quello del primeggiare del denaro; e quella di un intrepido coraggio rispetto all’assurdo. Sgalambro non ha dubbi; quando scrive che «sotto l’ala del meglio, si confortano solo le anime candide che vi si rifugiano dopo le bastonate ricevute», si ripete che è inutile continuare a credere alle «magnifiche sorti e progressive».
Non lo disgusta il presente, ma è la condizione umana di sempre l’oggetto della sua analisi. Da qui anche l’altereo con Dio, segnato da questo pensiero: «Silete teologi! Se rubi ti arrestano; se affermi che esiste Dio è solo una opinione. Ciò mi ha sempre meravigliato». Dunque il credo religioso diventa, per Sgalambro, reato.