Giovanni Gentile ovvero l’ossessione del pensare

Manlio Sgalambro in L’Unità, 18 aprile 1991, p. 17

A partire da domani si svolgerà a Siracusa un convegno su Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Due giorni di lavoro densi di contributi: da Cacciari, a Bodei, da Tronti a Natoli. Fra i relatori c’è anche il filosofo siciliano Manlio Sgalambro al quale abbiamo chiesto una breve riflessione su Gentile i cui scritti vengono letti recentemente con occhi diversi rispetto al passato.

Com’è possibile occuparsi di filosofia quando di essa non è rimasto praticamente più nulla? Conserviamo alcune lerce domande, la sede inestinguibile di vili risposte, un linguaggio che fa acqua da tutte le parti. Ma anche dei libri indimenticabili. Occuparsi di filosofia non è altro che occuparsi di questi libri.
«L’importante è pensare»: con queste parole, con le quali si conclude il Sistema di logica, Gentile si annette un frammento presocratico con pieno diritto. Egli ha praticato la difficile questione pensare il pensare, senza che nessuno in realtà glielo contendesse. Gentile è rimasto un filosolo provinciale anche in questa “assurda” pretesa. Ma la sua richiesta al filosofare rasenta l’eroico. Che cosa significa pensare? Si torna oggi a chiedere. Ebbene, egli ha dato una risposta. Ma la letizia e la supponente dignità che l’accompagnano sono un segno del passato. Noi ci vergogniamo di pensare. Gentile se ne rallegra. Qui sta la sua ingenuità. Il peso del pensare si averte insopportabile e si vorrebbe allontanarlo, cacciarne la desta presenza che rumina come se l’affare non fosse suo. Come se tutto ciò non si svolgesse a spese della singola vita a cui si accompagna e che fa a pezzi. Ma esso continua insaziabile e, a chi ne averte il peso, ma nello stesso tempo l’impossibilità di fermarlo, appare come un atto, come qualcosa che non ha bisogno d’altro per esistere… Poi, stanchi, spenti, senza più forza alcuna né desiderio, subentra una quiete inerte dove appena appena guizzano i riflessi più elementari. Una sorda tristezza per il destino che si subisce nolenti, incupisce. Ma tosto l’attenzione si desta di nuovo, un ricordo o qualcosa che sorprende – e non si sa da dove viene – e si ricomincia. Il mostro si guarda attorno sbavando di piacere e anche nell’uomo più comune azzanna, colpisce, come se fosse qualcos’altro da lui, e le cose più consuete e care vengono travolte perché esso passa come un uragano e nulla si salva dal pensiero.
Ne L’atto del pensare come atto puro, uno scritto esemplare, Gentile avvisa: “Un pensiero altrui, pur volendolo pensare come altrui, non possiamo pensarlo se non pensandolo come pensiero, intendendolo, ossia scorgendone e riconoscendone il valore: e, in altri termini, magari provvisoriamente, consentendovi e facendolo nostro» (Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, pag. 184). Più oltre: «Quello,
adunque, che si dice pensiero d’altri, o nostro in passato, è in un primo momento il nostro pensiero attuale, e in un secondo momento una parte del nostro pensiero attuale: parte inscindibile dal tutto cui
appartiene, e reale perciò nell’unità del tutto stesso. E però il solo pensiero concreto è il pensiero nostro attuale». L’unico modo come possiamo pensare Gentile e pensare. Sapere vedere l’ossessionante presenza del pensiero anche se egli non ne soffrì. Né gli suscito timore. Non si accorse della responsabilità di avere fatto il pensiero responsabile del mondo. Ciò che fu detto della volontà, noi lo avvertiamo infatti per il pensiero. Ci sentiamo nelle sue mani. Nelle sue mani il crudele rovello ci fa desti e presenti senza riposo. Invano si vorrebbe per un attimo non pensare, ma ciò non avviene. E se accadesse ne avresti subito la prova e non avresti più niente e il mondo, il sole, le stelle lassù, e ogni ricordo, tutto insomma scomparirebbe e le le mani si protenderebbero invano. È il pensiero dunque, non la volontà ciò che sostiene il mondo, e non passa momento che esso non percuota con la sua mazza i tuoi nervi e i peggiori supplizi che subisci vi sono legati. Così oscilli, o meglio sempre più vicino, sempre più oscilla questo pendolo, tra volontà e pensiero, e rimbomba sempre più dappresso il suono feroce e ora ti volgi all’uno, ora all’altra. Ora ti sembra che sia la volontà ora ti sembra il pensiero o ne sei certo. E da esso cerchi scampo. Siamo al limite del non pensiero (di ciò che Gentile si adopererà a fissare per l’eternità come pensiero pensato). È qui che noi vorremmo fermarci. Finalmente giunti, approdati alla riva. L’infanzia del pensiero s’inebria con l’irresponsabilità della sua età. Pensare è un giuoco esaltante, giuoco di fanciulli. Ma perché squietare la pace del pensato? Meglio contemplare un’opera finita che crearla, protesi a impastare l’insulso guazzabuglio, a infondergli lo spinto vitale. Meglio vederla dopo compiuta, gelida o piena di composti colori, invece che in preda alle vampe fetide di un grembo. Volgi indietro la lesta. Lì sono le opere, nella composta pace del già pensato. Senza alcun filo che le leghi alla vita, salvo l’insulso interprete che gli presta la sua, credendo chissà cosa. Mentre da quella compostezza di morte, da lì spira ciò che ora godi, come effluvio di roseti, tenero, carezzevole. Solo da questo culmine però, a cui Gentile ci diede una mano per salire, possiamo vedere tutto l’orrore del pensare. Di anelare a sopprimerlo, e ad abbandonarci agli esseri e alle cose, semplicemente.