Una prova disperata di se stessi

Manlio Sgalambro in La Sicilia, 2 febbraio 1991, p. 3

Meditazioni provinciali

La guerra è misteriosa
Come risuona cupo questo giudizio di De Maistre e tuttavia quanto chiarore v’è contenuto. Ma d’altra parte quante ipocrisie. Sentiamo ancora De Maistre: «L’angelo sterminatore gira come il sole attorno a questo infelice globo, e non lascia respirare una nazione che per colpirne altre». Diciamolo pure allora: la guerra esiste sempre, solo c’è un momento in cui essa esiste anche per te, ecco tutto. Ma c’è anche quello che Ernest Psichari chiamo «l’appel des armes». (Quando egli scrisse questo dimenticato romanzo «il faut rappeler que l’on était au temps du plus grand triomphe des pacifistes. On réprouvait tout emploi de la violence, toute action de la force… Il fallait détester les fusils», L’appel des armes, pp. 16-17. Insomma si era alla vigilia della prima guerra mondiale). La battaglia, non la guerra: qui le cose cambiano. La guerra è un concetto politico; la battaglia una forma di vita.

La forma di vita del combattente
Si potrà discutere quanto si vuole se la guerra è giusta o no, mai se una battaglia è «giusta» o «ingiusta». La battaglia, dunque, è la forma di vita del combattente. Ernst Jünger, in Der Kampf als inneres Erlebnis (che tradurrei La battaglia come esperienza interiore), parla della «bramosia di scatenarsi del tutto nella battaglia». In un altro punto scrive: «Nel fragore dell’orgia il vero uomo si risarcisce di tutto il tempo perduto. Le sue pulsioni, a lungo tenute a freno dalla società, ritornano ad essere l’elemento unico e sacro e la ragione ultima». E ancora «La volontà di uccidere spinge allora gli uomini… e quando due uomini cozzano l’uno contro l’altro nella vertigine della battaglia, a colpirsi sono due entità, delle quali soltanto una può sussistere. Infatti queste due entità si pongono reciprocamente in un rapporto originario, nella lotta… nella sua più nuda forma». A questo punto Jünger parla di «estasi». Il combattente, scrive immaginosamente, «è come la tempesta che strepita, il mare che mugghia ed il tuono che rimbomba… Egli si è fuso con il tutto, arrestandosi sulle nere porte della morte come un proiettile sull’obiettivo».

L’individualità solo apparenza
Diciamolo con parole nostre: il combattente nella battaglia si prova. La sua vita non è più il banale fatto che egli è nato, che vive, ma una conferma, un «Sì» non importa di chi o di che cosa. Qui si dipartono comunque due grandi visioni. Quando nella Bhagavad Gita, davanti ai due eserciti dei Kuru e dei Pandu pronti alla battaglia, il giovane Arjuna domanda al dio Krsna se si può uccidere, la risposta del dio è che si può uccidere perché l’individualità è solo apparenza e il vero Sé è uno e immortale. Ma se ognuno è l’altro anche uccidere è illusorio ed illusorio è essere uccisi. La battaglia quindi non prova niente.

Perché ha torto il principe di Condé
L’altra è contenuta nella risposta del principe di Condé al cardinale Mazzarino che compiange i seimila morti in battaglia presso Friburgo: «Suvvia, una sola notte a Parigi fa nascere alla vita più uomini di quanto questa azione militare ci sia costata». Qui uccidere ed essere uccisi è reale. Ma se nessuno è l’altro, nessuno può essere sostituito ed il principe di Condé ha torto. Solo in queste condizioni la battaglia può essere una forma di vita. Una di quelle situazioni – come la fede, il sapere, l’agire morale – entro cui l’individuo prova disperatamente se stesso.