Tiziano Salari in Microprovincia, n. 29, gennaio-dicembre 1991, pp. 248-250
Anatomia di un filosofo. O, meglio, della sua controfigura. Questo Monsieur Teste di Manlio Sgalambro (Anatol, Adelphi 1990) ci introduce nel mistero della testa di un filosofo. “Ma il filosofo non incoraggia alla verità, egli dice”. Egli ama prendere vie traverse, lontane dalla verità. La verità è semplice, ma perché gli altri se ne avvedano occorre impegnarli “in percorsi estenuanti, in mille giri su se stessi perché cadano lungo la strada – e, alla fine, chi arriva sia sempre al punto da cui è partito”. La facilità con cui arriva sia sempre al punto da cui è partito”. La facilità con cui la verità è a portata di mano – dietro l’angolo, a un solo passo
– esige che vengano posti in essere procedimenti laboriosi, verifiche ossessive, e che si sacrifichino vite. La visione filosofica di Anatol include tutte le visioni filosofiche del passato e tutte le assimila nel suo esasperato ed ironico solipsismo.
“Neoplatonico, stoico, epicureo, cartesiano, spinoziano, kantiano, shopenhaueriano: i tuoi sette colori formano però il colore della verità”. Oltre che con Monsieur Teste, Anatol ha delle affinità con il leopardiano Filippo Ottonieri. Il suo pensiero spesso si esprime in detti memorabili e paradossali. “La morale è soltanto una macchia nella limpidezza del fato, nota Anatol”. “Occuparsi degli uomini gli dava fastidio. Ma anche delle loro opere finché queste erano ancora calde, vicinissime al loro autore, aderenti a lui come pelle. Occorre attendere che gli uni e le altre diventino cose, spiegava. Che l’aspro odore di vita si attenui”. Eccetera. La vita di Anatol è costellata di espressioni che sono il distillato ultimo di millenni di filosofia”. Non più idee in undicimilatrecentottanta pagine (come nello stolido Cassirer). Come uomo del Quaternario Anatol raccoglie impressioni. Frasucce attorcigliate come una corda alla quale, egli dice, ci si impicchi pure”.
Anatol (il suo universo spirituale) è insieme variopinto e uni-forme, intessuto di sette colori e ascetico portatore di un solo pensiero. Neoplatonico: “Sotto la guida delle beatissime Enneadi ritenne che il loro unico tema fosse il viaggio, ma che l’andata e il ritorno fossero apparenti e in realtà nessuno si muovesse”.
Stoico: “Una volta immaginò di essere uno schiavo. Considerò comandi anche le leggi fisiche: ubbidiva agli ordini di un padrone. Biasimò Epitteto di aver pensato come un qualunque uomo libero. Non come lo schiavo che fu. Ritenne che cosi avesse mancato una più grande occasione. Immaginò dunque di essere uno schia-vo, ma non si vide diverso. Sognava caso mai il perfetto automa, il corpo che ampliava il suo dominio, il meccanismo che si estendeva”. “Ci fu un periodo in cui si fustigava ogni giorno. Voleva cosi rendere indipendente lo spirito dalla sorte del corpo”.
Epicureo: “A Zarathustra danzante preferiva Titiro sdraiato” Quanto a Spinoza e Schopenhauer, all’Ethica e a Die Welt als Wille und Vorstellung, il rapporto di Anatol è ancora più consustanziale. In taluni momenti del suo errare lontano dalla verità. “L’Ethica, suo soccorso abituale, giaceva chiusa ma bene in vista in un canto di modo che gli occhi la vedessero e ne invocassero l’aiuto che egli regolarmente si rifiutava”. “Dei suoi maestri Anatol dice: sono stati i miei migliori discepoli. Ho un tale ricordo di Spinoza, aggiunge, che quasi non sembra che egli mi appaia attraverso la lubrica memoria. Questa mi terrorizza mescolando cosa a cosa e rendendo ancora più confuso ciò su cui tiranneggia. Ma non ho altro mezzo per rievocare ciò che egli è stato per me. La storia, dici? Che faccenda da camerieri! Rileggerne adesso l’opera? Ma non cadrò in questo imbroglio. Meglio dunque l’attenzione che gli prestai quando fu e la sottomissione incondizionata dei miei inizi. Eterno candidatus theologiae, gli devo crudeltà come la proterva insopprimibilità della nozione di Dio nella mia mente”.
Sangue del suo sangue è Schopenhauer. Anatol “riteneva che era più esaltante ribadire che inventare. Immaginava che esistessero mille Fedre, mille Mondi come volontà e rappresentazione, tutti veri”. Un pensiero assilla Anatol: che il mondo è giunto alla sua fine e che questa consapevolezza è l’antefatto che lo lega “alle sublimi parole d’inizio di Die Welt als Wille und Vorstellung. ‘Il mondo è la mia rappresentazione’”. Poiché appunto il mondo è giunto alla sua fine, la filosofia di Schopenhauer s’invera.
“Il mondo non esiste più se non per la sua rappresentazione. Cosi riscriveva Die Welt senza cambiarne una riga”. E Kant? “C’è tanta malinconia nella Kritik der reinen Vernunft quanto in una grigia giornata autunnale, riflette Anatol. E in ciò che la sento un’opera. Chi non lo percepisce ha mancato un risultato fondamentale di essa”.
Ma i sette colori si fondono in una sorta di pesto e aristocratico ascetismo della conoscenza, in cui l’immagine più ricorrente è la riscrittura del Mondo come volontà e rappresentazione come atto appagante e forse esaustivo di ogni vita filosofica. E Anatol è un albero gonfio di sofferta conoscenza “carico di saperi, reazioni, cose da scrivere”.
Manlio Sgalambro – la distanza da Anatol è minima – è quell’albero gonfio di sofferta conoscenza che, come Anatol, ha trovato nella scrittura l’atto finalmente totale, che “solleva dall’agire e dal patire”. “Io sono? Io scrivo. Coglieva finalmente l’incontro di tutte le cose e si affermava superbo in questo atto”. “Le opere di Anatol-Sgalambro: La morte del sole, Trattato dell’empietà (entrambe edite da Adelphi).
Manlio Sgalambro, Anatol, ed. Adelphi, pagg. 167