Manlio Sgalambro in La Sicilia, 26 gennaio 1991, p. 3
Meditazioni provinciali
Una certa devozione allo spazio ci induce a resistere alla tentazione di aderire alla tesi che lo spazio è il dominio della volontà. Abbiamo immaginato questa analisi. Un quadro occupa lo spazio la cui intelligibilità ne resta lesa. Ne deturpa la purezza. Ma l’atto di occupare è l’atto stesso di esistenza. Senza quest’atto il quadro non esiste: è solamente là. Lo spazio dunque respinge il quadro. Se ne avverte la resistenza allorquando gli occhi che tentano di posarsi su di esso sono invece sospinti a forza sul suo rapporto con lo spazio. Ecco che allora tutto si sovverte. Non è il quadro la cosa più importante, ma lo spazio che lo invade e lo soverchia da tutti i lati. Il quadro allora diventa l’occasione perché lo spazio si mostri. Si rovesciano le parti. Il quadro esordisce da protagonista riducendo lo spazio a un mezzo. Ma di colpo lo spazio si scrolla d’addosso il quadro che inizia la sua misera esistenza. In effetti chi non «vede» lo spazio non vede nemmeno il quadro. Lo sguardo che vede lo spazio è legato al suo vuoto. Esso non vorrebbe che fosse mai occupato. Il vuoto dello spazio è il richiamo che esso esercita sull’individuo.
All’inizio non c’è altro che lo spazio. Il quadro non è nemmeno «visto». Lo spazio e solo esso ci interessa. L’individuo se ne sente avvolto, avvinghiato. A poco a poco vi si distende, vi aderisce, diventa un essere geometrico. Qualsiasi quadro offende lo spazio. Turba il grande vuoto che ci invia il suo appello. Il quadro dunque è un disturbo, un inceppo, un graffio magari, un segno comunque che la solennità di questa sovrana omogeneità è turbata. Si crea dunque uno squarcio, una infruttuosa ferita, nel tessuto dello spazio. Il quadro nasce come una malattia dello spazio, una escrescenza velenosa, un attentato alla sua divina integrità. Ma solo se questa offesa si realizza, solo se un quadro ha questa forza di lacerare il suo ordine segreto, allora il quadro esiste. Altrimenti lo spazio l’inghiotte, lo ricompone nella immensa pace, senza increspature, della sua superficie.
Le arti spaziali lottano dunque contro lo spazio che minaccia di incorporarle. Un quadro deve anzitutto affermarsi davanti allo spazio. Da un lato esso sottrae spazio, incorpora spazio, come se volesse in qualche modo diminuirne la sorgente inesausta. Dall’altro sembra che «doni» spazio. Fermiamoci qui. In questo complesso scambio sembra il punto più fermo. Un quadro riesce allorquando dona spazio. Allorché non ruba spazio, ma lo aumenta. Così lo spazio ora lo accoglie, gli dà un ricetto, una nicchia. Lo accoglie dentro se stesso. Esso vi scompare. Fa ormai parte dello spazio. Non come prima, però, quando lo spazio lo cancellava con un gesto indifferente. Adesso lo spazio lo accoglie. Esso diventa, in qualche modo, un punto d’onore dello spazio, un suo luogo privilegiato. Ma in tutto questo agisce ancora l’essenza dello spazio. Come se un abisso fosse al di dentro di esso.
Infine, ciò che è accolto dallo spazio vi scompare. Così l’opera d’arte che ha a che fare con lo spazio o può essere solo un segno avvilente, una cattiva macula, una disomogeneità senza importanza e scomparire nello spazio come in un cesto di rifiuti. Oppure si annulla nello spazio ma nel senso che anch’essa ormai ne fa parte. Che lo spazio l’accoglie e la benedice. Questo sprofondare nello spazio, e la sua accoglienza, è la nobiltà del quadro.