Manlio Sgalambro in La Sicilia, 12 gennaio 1991, p. 3
Meditazioni provinciali
«”Sophos!” universi clamamus», che sapiente, gridiamo in coro! Se potessi dirlo così, con Petronio! O uomo eccellente, genio, valentissimo filosofo! E chi è costui? Eccolo, impassibile, perfetto; ti viene di dire: ecco uno stoico. O è solo un impiegato? Un tempo, per sapere se uno era filosofo se ne osservava la vita. Se uno abitava in una botte o portava la barba, ci potevi giurare che quello era un filosofo.
Oggi che devi giudicare da ciò che scrivono, la cosa non è più così semplice. Sono tante le metafore, le metonimie, le allegorie, i metaplasmi, eccetera, che ti si smarrisce il senno. Quel libro che elogia il pudore, ad esempio, è destinato alle educande, a chi va in viaggio, oppure? Non è che leggendolo ti togli i dubbi. Tu non devi dire che cosa è il mondo, non devi giudicare, idem condannare; devi avere pudore, devi, questo sì. Va bene che il filosofo fu sempre uno spudorato, ma sarà che il progresso è arrivato fin qui. Certo, per vuotare un pitale ci vuole tempo, per vuotare un libro molto meno. Però è una prova che va fatta. Vuotalo e vedi cosa resta: lì resta il pitale, qui nulla.
La prima conseguenza, dunque, è che il filosofo accademico è un furbo di tre cotte. Egli mette su una filosofia dove non c’è niente dentro. Tu la scuoti da tutti i lati: nessun rumore. La guardi bene, niente; provi a sopportarla: una piuma. A me non ne va una: dopo avere cercato tanto non mi resta che ripiegare sulla mia. Dico così tanto per dirlo subito e togliermi il pensiero. Se mai, dovessimo sentire dire, può capitare, «quello è un filosofo», ci sarebbe da smascellarsi dalle risa. No, non è possibile, ti ingoi la lingua, prima.Tu della verità puoi parlare solo in certe ore del giorno e in determinati luoghi. Non è che mentre si sta parlando di cose amene, così tanto per fare, vieni tu e dici di punto in bianco: «Bisogna parlare della verità. Non ci si deve distrarre nemmeno un minuto». Non solo tu sei un ineducato, non rispetti l’ospitalità – ad esempio ti hanno invitato tanto gentilmente, eccetera, eccetera e ti scappa di dire agli altri attoniti: bisogna parlare della verità. No, non è così che si fa. Eppure non ti zittiranno, no, non ci riusciranno e dovunque tu sei, se devi farlo, fallo senza paura. La verità non è un ombrello che tu lo porti comodamente appeso al braccio e quando vai dalla gente lo lasci all’ingresso. Se hai una verità – o come bisognerebbe dire, se ti ha una verità – tu fai come un folle, ti agiti, non prendi sonno, insomma stai certo peggio di prima.
Questo, diciamolo per inciso, distingue un filosofo extra-accademico, uno che filosofa in proprio, da un impiegato. Costui ha ridotto la verità a una lisca, che non si vede nemmeno, ne parla tutt’al più con gli intimi, al più per farsi quattro risate. Fatti tutti i debiti controlli non resta niente, dice. Ma i controlli sono fatti proprio per questo. Così il nostro «filosofo» accademico può andare tranquillo. Si ingozza di libri, mischia, pasticcia, tira qua e là la sua «filosofia» (no, egli non è della filosofia ma essa è sua, mehercules) e invece di chiudersi in quella come in un chiostro, come in una celletta, per dire le sue orazioni, insomma per contemplare o pensare, cercare di vedere le Idee come vede i bottoni della sua giacca, ecco che egli ti diviene mistico, di quello bisogna tacere, quest’altro non si può dire, l’altro ancora non si può pensare, sebbene pensandolo già lo hai pensato e via di seguito. Chi vuole questo filosofo? Quanto lo pagano al mercato?
Il filosofo extra-accademico è un prodotto originario della natura; il filosofo accademico è un prodotto artificiale dello Stato. Il filosofo accademico dice: dopo di me il mio allievo (cioè, ancora io); il filosofo extra-accademico dice: al diavolo, dopo di me il diluvio. Ma egli dice pure: il filosofo è un’esca per la verità. Bisogna che tu ti faccia esca perché la verità abbocchi.