Michelangelo Lorefice in Il Contributo, XIV, n. 4, ottobre-dicembre 1990, pp. 83-86
Solitamente si pensa che l’attività filosofica tragga inizio da una sorta di vis existendi in virtù della quale solamente può darsi la sua possibilità. Di conseguenza, la misura della «validità» di una filosofia sarebbe da ricercarsi più che in esiti squisitamente teoretici proprio nel suo riferimento alla vita, nei legami che con essa riesce a stabilire, nelle valenze pratiche che è in grado di produrre. La definizione platonica della filosofia come «uso del sapere a vantaggio dell’uomo» (Eutidemo, 288) sembrerebbe allora esprimerne l’intima essenza, e una concezione che volesse delinearsi in senso opposto dovrebbe subito rientrare, pena la sua inattualità. Mentre una tale inattualità è per gran parte delle filosofie oggi esistenti una condizione assolutamente da superare (si pensi a certi recuperi filosofici fatti all’insegna della categoria generalissima e in certo senso rassicurante di attualità ), è proprio di essa che, consapevolmente, si fa carico il pensiero di Manlio Sgalambro.
In Anatol, Sgalambro, arrivato al grande pubblico con La morte del sole (Adelphi, Milano 1982) e Trattato dell’empietà (Adelphi, Milano 1987), ribadisce i suoi temi organizzandoli attorno al racconto che una mente fa di se stessa. Anatol osserva il presente incapace di scorgervi motivo alcuno di interesse. In ogni suo aspetto, egli scopre piuttosto l’indiziario paradigma di una generale dissoluzione. Il sole sta estinguendo la sua luce e il suo calore; l’universo è condannato a un entropico stato di disordine che determinerà il totale spegnimento della dimensione umana, accelerato, tra l’altro, dallo squallido inveramento dei valori che hanno accompagnato la crescita e riproduzione dell’uomo occidentale. È un processo irreversibile, che non sopporta le fatue applicazioni di chi vorrebbe mutare il corso degli eventi. L’uomo etico-pratico è morto, si cerchi il disimpegno che accelera la fine: sono questi i temi di Anatol, è questo il senso della sua inattualità, della sua estraneità o contrarietà agli interessi del presente: «voglio decadere, dice Anatol. Non intendo migliorare niente. Spiava i sintomi del dissolvimento. L’ordine pervertito in cui viveva aveva la sua approvazione» (p. 79).
Il presente a cui Anatol si riferisce è un presente totale, nel quale si dispiega una temporalità cosmica perennemente in atto. In tale onnicomprensiva presenzialità l’uomo è immerso e ogni concetto di successione vanificato. Nessuna azione può esercitarsi su questo presente che mai conoscerà futuribile che non sia un qualche evento inscritto nella necessità cosmica: «al di là dell’accaduto stazionano notte e giorno gli eventi. Essi, prima o poi, accadranno» (p. 67).
Queste verità sono contemplate dal filosofo, che concepisce la filosofia come ascesi senza autore e bandisce dal suo ambito ogni principio di soggettività, sia quello di un presunto autore che l’altro di un eventuale lettore-interprete: «la conoscenza filosofica, aggiungeva, si conclude nella contemplazione, Questa rappresenta il punto più alto. Dove, messo fine all’irrequietezza che la conoscenza reca in sé, nel suo stesso nucleo, si perviene al nunc stans… Nella contemplazione infatti, tutto gli è dato e niente più gli occorre… Nella contemplazione la conoscenza viene lasciata indietro assieme all’interesse » (p. 62). E allora « la filosofia deve cominciare con la pratica e finire con la teoria, insegna Anatol. Non secondo l’uso invalso… La morale è soltanto una macchia nella limpidezza del fato, nota Anatol. La pratica solo una debolezza della teoria» (p. 10).
Ecco dunque una delle cifre fondamentali del pensiero di Sgalambro: un negativismo pratico di ascendenza schopenhaueriana che fonda la possibilità dell’incondizionato dispiegarsi della vita della mente. Il filosofo di Danzica fornisce al solitario pensatore di Lentini l’ispirazione che lo porta a vedere il mondo come alterità nemica, rappresentazione, o utopia per la specie umana: « è possibile che nessuno si sia accorto che il mondo è finito? Era questo il suo stupore e il modo stesso in cui lo raccontava. Il mondo non esiste più se non per la sua rappresentazione. Così riscriveva Die Welt senza cambiarne una riga» (pp. 66-67).
Se il mondo è finito, se siamo contemporanei alla fine che già accade, allora la prerogativa del filosofo sarà quella di una contemplazione realizzantesi come ascesi senza autore e di una conoscenza come visione del vero: «Perversione si può chiamare la smodatezza nel conoscere che lo (Anatol) spinge: questa incapacità di sottrarsi al vizio, la frenesia che lo fa persistere negli stati d’animo più spiacevoli per ricavarne ancora una sensazione di realtà » (p. 12); e ancora: «la filosofia genera mostri e non toilette de circostance. Parlo naturalmente di quella che scava nella mente e non si appaga di notizie… Intrattenete il migliore rapporto con ia vostra mente, nella quale non troverete le idee – finto candore del vostro amato Descartes – ma i detriti, la schiuma delle cose, il loro spettro. Questo è il conoscere!» (pp. 92-93). Interessa qui notare la connessione instaurata tra conoscenza e sofferenza (era stato Schopenhauer nel Mondo a fare proprio il detto di Qohèlet «qui auget scientiam, auget et dolorem»). Il masochismo logico sotteso a questa concezione conoscitiva presuppone la superiorità della mente sul resto dell’esistente, e in virtù di essa opera una schisi tra LeibLeben e logos, tra un pensiero che riflette su se stesso e ia vita come suo corrispondente – ma subito rimosso – pensato: « sempre per via della duplicità delle sostanze, con una è installato solidamente nella condizione, con l’altra, vede enti ed essenze…» (p. 9). Una mente filosoficamente perversa si autoafferma tramite lo sganciamento dalla vita e la sterilizzazione di ogni interesse vitale. Questa suggestiva posizione filosofica, questa insistenza sul concetto di verità, anche quando essa si mostra come dolore o paura, o la si definisce in senso non trascendente-metafisico ma in quello assai più ristretto di oggettività naturale, ci sembra cosa di non poco conto in un tempo come il nostro, nel quale il senso della verità viene ridotto al vuoto relativismo e alle molli movenze concettuali di un atteggiamento disincantato, o a un vano discorrere auto-consolatorio.
D ‘altra parte, mentre pensiamo che Sgalambro sappia veramente mostrare come spesso la funzione del pensiero sia stata esercitata non in vista della verità, ma nel suo offuscamento e in vista di intenti pratici, ci chiediamo: è possibile mantenere, nei termini da lui posti, una scissione totale tra funzione teoretica del pensiero e vita come suo ottundimento, al punto che uno sconvolgimento radicale di quello possa non ripercuotersi su questa, e la vita continuare, e la pratica avvitarsi su se stessa anche dopo la presa di coscienza da quello sconvolgimento operata? A noi sembra che questa visione della filosofia come contemplazione veritativa e impersonale debba essere intesa come dover essere, tensione verso una situazione di impersonalità di pensiero, che come situazione potenzialmente attuabile o appieno dispiegata nella realtà. Infatti, potremmo dire che esistono dei fili – sottili se si vuole – che legano quello che pensiamo o affermiamo a tutta una serie di esperienze di vita, di eventi che costituiscono la trama delle precomprensioni del pensiero dell’individuo filosofo.
In realtà, ci appare più convincente di tale estremistica concezione l’altra, data dalla felice immagine con cui Sgalambro (in una intervista concessa allo scrivente) si rappresenta e ci rappresenta il pensiero: «un continuo staccarsi e attaccarsi alle cose, e attaccarsi per subito staccarsi».