Manlio Sgalambro in La Sicilia, 11 settembre 1990, p. 3
La morte di Nicola Abbagnano
Milano – Nella chiesa di Santa Maria del Suffragio si sono svolti ieri a Milano i funerali di Nicola Abbagnano morto nella notte di domenica a 89 anni. Nato a Salerno il 15 luglio del 1901. Abbagnano si era laureato a Napoli nel 1922. Aveva studiato in particolare e diffuso in Italia l’esistenzialismo e il pragmatismo. Il suo libro La struttura dell’esistenza, del 1939, è considerato uno dei classici dagli studiosi della filosofia moderna. Sue opere importanti sono inoltre L’esistenzialismo positivo, del 1948, e La storia della filosofia (1946-1950). Abbagnano, dopo aver tenuto per molti anni la cattedra di storia della filosofia a Torino, si era trasferito a Milano. In questa città era stato eletto al consiglio comunale per il PII e per un certo periodo, durante V ultima giunta di centro sinistra, a metà degli anni ’80, era stato assessore alla Cultura.
Come muore un filosofo? Che tempi meravigliosi si potrebbe dire, oggi nessun Bruno muore sul rogo, e Socrate si vede bere un gin tonic. Si crede così di lodare i tempi o di lodare la filosofia che avrebbe questa fortuna? O non si deve dire piuttosto: miseri i filosofi per cui non c’è nessun rogo ad attenderli, misero quel Socrate a cui nessun veleno darà l’ultima prova!? Abbagnano è morto ma la filosofia resta. Egli incarnò onestamente la filosofia della cattedra. La sua Storia della filosofia ne fu la tomba: nessuna storia, nessuna filosofia. Mentre la filosofia con ciò che si chiamò ignobilmente esistenzialismo prospettava dalla cattedra – ex pumice, aquam – i problemi della morte e urlava tutta la sua sofferenza da Friburgo e da Parigi, Abbagnano spegneva tutto ciò che restava in una brodaglia insipida: esistenzialismo sì, ma positivo. Si beffava da se stesso e neppure se ne accorgeva. Gettava acqua: ma dov’era il fuoco? Il suo filosofare era simulato. Tutto sembrava, niente era. la filosofia è fallibile, sosteneva Abbagnano. Ma, secondo l’intenzione, il filosofo non è infallibile? Pensiamo ad Hegel. Qualcuno potrebbe sostenere che egli si sia mai ritenuto, come filosofo, fallibile? E Schopenhauer? Forse che Agostino non godé pure di questa specie di infallibilità? E Spinoza? Ecco ciò di cui mancava la sua Storia della filosofia. Ma l’intenzione non è l’aria in cui la filosofia respira? Cos’è la verità per un filosofo? Anzitutto l’intenzione? Cos’è l’eternità per un filosofo? Ancora l’intenzione. Non è lui che deve arrossire di vergogna, ma lo storico. Lui ha preso il suo fagottino e se ne va per la sua strada tenendosi stretto all’eternità: secondo l’intenzione.
Abbiamo detto che Abbagnano rappresentava da par suo la filosofia della cattedra. Ed egli ne intese bene il compito: neutralizzarne i contenuti di verità. Quando, nel quadro della filosofia della cattedra, si presentano, come articolata espressione di temi fondamentali, l’angoscia, la noia, la morte…, assistiamo in verità alla comica “universitarizzazione” di matters of fact. Tutto viene travolto in un linguaggio burocratico, “ufficiale”, nel quale ciò di cui si parla è nello stesso tempo messo a tacere. Questo pensum Abbagnano adempì bene. Il trattato filosofico-universitario non turba minimamente allo stesso modo che un trattato di tossicologia non avvelena. I suoi libri infatti erano innocui.
Per quanto riguarda la filosofia sans phrase essa non pretende di vivere come la filosofia universitaria, in una comunità che si è accordata – implicite o explicite – per fare in modo che tutte le verità siano possibili, ma come in uno stato di natura – Kant nel Conflitto delle facoltà vi accenna – dove una filosofia pretende la verità tutta per sé e vuole, per dir così, la morte di tutte le altre; di fronte al civile patto intercorso per la pax philosophica qui non c’è che la guerra di una filosofia contro ogni altra.
Come esponente della pax philosophica Abbagnano non poteva prendere sul serio la filosofia. La filosofia non prende sul serio Abbagnano.