Una voce che chiama e distrugge

Manlio Sgalambro in La Sicilia, 23 luglio 1990, p. 3

Meditazioni provinciali

«A woman called… “José, José”. He crouched like a galley-slave at the sound: his eyes left the sky, and the constellations fled upwards…: José, José…». (Una donna chiamava…: José, José. Egli si acquattò al suono come uno schiavo al remo. I suoi occhi lasciarono il cielo e le costellazioni che fuggirono via… José, José…»).
Graham Greene, The Power and the Glory

Donne e costellazioni
La voce di una donna chiama, lamentosa e padrona. Davanti a questa voce molti slanci sono crollati e, nella vita di un uomo, spesso è valsa a troncare sul nascere qualsiasi anelito a cose eccelse. Il suo suono richiama al trantran quotidiano, all’ordine, al pranzo all’ora giusta e ai doveri coniugali sotto il lenzuolo.

Futura condanna
Di un uomo di cui si dice che merita di morire, non occorre che poi effettivamente segua la condanna e la morte. Di lui s’è dato infatti il giudizio peggiore. È come se fosse stato messo al bando dal genere umano e nulla di peggiore potesse capitargli.
Che merita di morire significa che lo si ritiene meritevole della cosa più atroce e vile e che questo giudizio lo coprirà a sufficienza di infamia. Così tra i veri uomini, un giorno, si risolveranno i casi estremi della giustizia e la vera condanna a morte sarà che l’individuo che merita la morte viva anzi il più possibile sopportando questo infamante giudizio.

Grandi opere
Caro amico, la differenza verso le grandi opere nel nostro lacero scorcio di secolo mi priva dell’abbandono necessario a leggere la sua.
Le posso assicurare solo una buona lettura da nemico. Di uno, cioè, che ha buttato tutto il suo pensiero nel proprio sforzo e non può ritirare la puntata in nessun momento. Mi capisca. Io non sono più in grado di vedere altro che ciò che io penso. Dei pensieri altrui percepisco solo il fumo e la boria. Convengo con lei sulla gravità del mio stato. Non sono più in grado di apprendere.
Non vedo altra chiarezza che nel mio pensiero e non mi vergogno di dirle che so di sapere. Tutte le virtù filosofiche: dubbio, prudenza, spirito critico, mi hanno abbandonato ed altre follie si sono impadronite di me. Ecco perché non posso leggerla che da nemico. Mi tema.

Dall’Ecclesiaste
«Lætari in opere suo»: godere del proprio lavoro. Di esso godiamo, sì, anche se mostruoso. Che si possa costruire, con spirito di letizia, una preposizione in cui si faccia piazza pulita di sentimenti onorati o si sfiori la criminalità. O confessare la propria viltà in deliziose sequenze che mostrano quanto si stia godendo a scriverne. La gioia della forma compensa di tutto e vince spudoratamente.

Veleni
Heidegger: che grande babbeo!

Confessioni
Si ha voglia di confessioni. Trascinarsi carponi e gridare a tutti i propri segreti oppure incolparsi di ciò che solo si desiderò. Nel caso in questione, quali possono essere le confessioni segrete di un filosofo se non quelle in cui egli rivela ciò che avrebbe desiderato pensare? I mondi impossibili? «Mutuam vero copulationem scriptura cognitionem vocat». Confessa, filosofo.

Corpus presocratico
È come se esso fosse cozzato con violenza contro il tempo e si fosse spezzato in mille pezzi, a volte bizzarri, a volte sciocchi, stupidi, dove si vede che non ha agito un Logos ma non si sa che. L’effetto di questo scontro è paragonabile a quello di un incidente automobilistico, dove il cadavere assume pose grottesche, con braccia che non si sarebbe mai potuto immaginare che potessero ciondolare a quel modo, con gambe in fogge impensabili. L’“idiozia” del frammento presocratico ci dà a volte il senso di una tale rovina.