E l’automa si fece verbo

Umberto Silva in Il Messaggero, 28 marzo 1990, p. 17

Simile a un uccello predatore ma anche a un serpente, Anatol, l’ultimo filosofo, veglia insonne dall’alto della sua arroganza guatando la preda. Chi sarà mai costei? Qualche briciola del mondo esterno? Qualche umano strisciante? No di certo, Anatol ha da tempo smesso di credere nell’esistenza dell’altro che non ha vita se non nel suo pensiero: Anatol ambisce pensare persino l’alterità e la differenza. Anatol è l’unico, l’androgino, l’autosufficiente, l’inossidabile, l’eretto. Le pure essenze sono il suo cibo, e egli stesso si stima una sostanza immutabile.
«Quando colpisco mi vengono certezze», dice Anatol. Un killer si aggira per la biblioteca di Babele e per le città dei maghi, magari rivisitate da Topor, da Lucas e dal dottor Zard; città arcaico-tecno-logiche che in cima a una torre d’acciaio in stile assiro ben possono ospitare questo teologo dell’immobilità, questo «ierofante della fine di tutte le cose».
Anatemi e anatomie caratterizzano l’incessante attività cerebrale di Anatol, anatemi verso l’altro, anatomia dell’identico, di sé, del proprio farsi pensiero. E se in cuor suo Anatol ama «il pensiero improvviso» e l’ira che travolgendolo lo spinge verso territori sconosciuti, il suo sogno resta pur sempre di divenire automa, cosa, di marmorizzarsi nell’identità. Anatol disprezza ogni leggerezza e trasformazione, è ostile persino a Nietzsche giudicandolo sempre troppo gaio e operettistico. Irride anche Heidegger che ha il torto di demonizzare la tecnica quando invece essa per Anatol rappresenta il compimento dell’uomo nella cosa, la quiete tanto agognata; e rende merito alla scienza.
Doppiando Schopenhauer, Anatol vede il mondo come «la rappresentazione di una rappresentazione» e Manlio Sgalambro fa il verso a questa doppiezza elevandola a strategia del suo libro
(Anatol, Adelphi, 170 pagine 12 mila lire), affidando a una voce narrante il compito di presentare il teatro vocale di Anatol, un teatro di «intuizioni, idee, scampoli, schiamazzi…». Quale disposizione mostra questa voce verso il suo personaggio-attore? Spesso sembra identificarsi con lui, sembra sottoscrivere le sue enunciazioni, ma poi, dopo avergli tirato la volata, con un brusco scarto si trae in disparte spingendo Anatol alla ribalta, a esporsi agli applausi di circostanza e ai più consistenti sberleffi.
Sì, perché Anatol, questo erede del più riservato Monsieur Teste, nel suo furore, nel suo accanimento, nella sua implacabilità rotta solo qua e là da alcune crepe e un personaggio tragicomico, è la miglior critica di se stesso, è la propria eccellente parodia.
Osserviamo Anatol al culmine del suo progetto di onnipotenza, quando s’accorge che solo in una blasfema corsa a ritroso può salvare la metafisica: poiché il Verbo si è degradato facendosi uomo occorre che Anatol lo riscatti facendosi verbo. Idea sublime non c’è che dire… ma, un momento, a chi appartiene questa carne ciarlante, questa voce che viene dal di dentro, se non …al ventriloquo? Siamo tornati dalle parti del tanto detestato music-hall… E chi incessantemente ausculta il proprio corpo se non… l’ipocondriaco? Donde certe boutades decisamente fobiche e non proprio eleganti di Anatol. Che a un certo punto non si trattiene più. L’impeccabile, il puro spirito, si lascia andare a un delirio erotico dal quale confusamente emerge il tentativo di fare della scrittura la tomba della parola.
Anatol, ovvero come un caso clinico diventa letterario grazie al sapiente, ambiguo dispositivo stilistico di Sgalambro che si guarda bene dall’arginare o dall’ammorbidire il pensiero forte, fortissimo di Anatol che in tal modo, gonfio di allucinazioni, incontra un trionfale sfacelo.