Sebastiano Addamo in La Sicilia, 2 marzo 1990, p. 3
Anatol di Manlio Sgalambro
Non è per caso, e invece forse per profonda ironia che il libro di Manlio Sgalambro: Anatol (Adelphi, 1990), si concluda con la parafrasi di un verso di Paul Valéry: «Il faut tenter d’écrire» dice Sgalambro, dove Valery aveva detto: «Bisogna tentare di vivere».
Ciò anzitutto vuol dire che l’atto del vivere si è risolto nell’atto dello scrivere, paradossalmente confermando la radicalità dell’apparenza in cui si situa la condizione dell’uomo contemporaneo; ma ciò anche dice come la dimensione letteraria – nel corso del libro ripetutamente svalutata – abbia incidenza essenziale.
Non ci vuol molto a capire, intanto, che questo Anatol non è una autobiografia mascherata bensì una costruzione letteraria, certamente singolare, un personaggio che come ogni personaggio ha parziale attendibilità e mistificazione totale, dunque partecipa del suo autore senza identificarvisi o combaciarvi, dal quale si può dissentire ma che non si può disconoscere.
Un libro di formazione e anche di educazione, temerario, sarcastico, ma dove talvolta accanto a certi ardori ditirambici balena una malinconia tetra e cristallina, quella splendida mortale dei tramonti. Con il personaggio, Sgalambro può esercitare la sua vocazione di immoralista che altrimenti non potrebbe risolversi nella perentorietà delle «enunciazioni», consegnarci la verità nuda e brutta, con cui Sgalambro provoca e costringe a prendere una posizione.
Anatol come compito si propone di «spargere a piene mani il disfattismo, tendere insidie, chiudere ogni via di fuga», lui che si dichiara «esemplare unico», sedotto dalla «idea di servire», diffidente di ogni «vivacità che gli sembrava avversa alle condizioni senza le quali la mente abdica»; le condizioni cioè di una vita pensante, attraverso un personaggio altezzoso, sicuro e sgradevole, che esige di «perfezionare i propri difetti, farne dei capolavori».
Da un certo punto di vista, ci troviamo davanti a un personaggio del quale non si potrebbe nemmeno parlare, lui che «odiava il dialogo», poiché «l’altro ha sempre torto» dato che la verità è una. Saremmo dentro questa logica mistificatrice e si farebbe il gioco di Sgalambro. D’altra parte, Anatol deve seguire la sorte di tutti i personaggi, e perciò va situato vanno cioè cercati i referenti.
Anatol ha alle spalle, e di prima mano, la filosofia del mondo, ma ha certi confratelli verso i quali ha dei debiti. Anzitutto lo Zarathustra nicciano, anche se è un modello negativo («Zarathustra agita le natiche, i piedi s’alzano a battere allegri il tempo. A Zarathustra danzante preferiamo Tirteo sdraiato»); e poi il «cinismo» del Quaternario di Gottfried Benn; soprattutto Monsieur Teste, il capitale racconto di Paul Valéry.
La impassibilità di Teste, la sua noncuranza e indifferenza verso il mondo e gli uomini, vengono sintetizzate dalla moglie quando, a suo proposito, dice che la sua vita è «tutta presa dalle abitudini e dall’assenza», che è poi la distinzione tra banalità e autenticità, tra le abitudini, cioè l’usualità e il meccanicismo quotidiano, e l’assenza, cioè la concentrazione radicale.
La distinzione che opera Anatol riguarda la «duplicità delle sostanze». A prescindere dal fatto di un ritorno al sostanzialismo come garanzia della oggettività della conoscenza, troviamo la conferma di quella doppiezza che sarebbe propria dell’uomo pensante, una sorta di ritorno al principio della doppia verità che tale duplicità consentirebbe. Anatol, infatti, «per via della duplicità delle sostanze, con una è installato solidamente nella condizione, con l’altra vede enti ed essenze». È furbo l’uomo, salva la terra senza perdere il cielo.
Similmente, Anatol nel presupposto (mutuato da Schopenhauer) che «il mondo è finito» dato «che è soltanto rappresentazione» può dar corso alla sua opera precisa e distruttiva. La storia diventa «faccenda da camerieri», l’amore è «apparenza», l’azione è «argomento degli incapaci», la verità è «il mondo senza l’uomo», la poesia è «garrulità», il romanzo «una pratica da feccia metropolitana».
È un libro di demolizioni che non vuole recare nuove tavole, non ha descrizioni né avvertimenti, bensì giudizi e condanne senza appello, dato che Anatol afferma il disfattismo, «un passo più avanti del pessimismo».
Tuttavia questa coltre di morte che copre il mondo trova la sua ragione, paradossale e riconoscibile, in quello che per adesso è il punto di approdo dell’umanità occidentale: la macchina, la tecnica. Anatol ne trae, come sempre, conseguenze lucide e abissali. «Il collegamento della tecnica con il pessimismo mondiale non viene scorto» egli osserva. Per la verità, Osvald Spengler lo aveva a suo tempo considerato, quando ne L’uomo e la macchina, nella prospettiva di un mondo di fumo e di ferro, esorta va a un saldo stoicismo: restare «nelle posizioni perdute, anche se non c’è più speranza né salvezza». Per Anatol «l’uomo inventa la macchina per sfuggire alla vita», mentre al posto dell’uomo «che si spegne», viene l’acciaio, dove «non troviamo noi stessi».
Il disfattismo di Anatol è evidente: tagliare ogni illusione, ogni falsa credenza, ogni malafede, e si spiega perché la filosofia diventa «nemica del genere umano».
Un’osservazione vorrei fare, dato che questo libro non concedendo alternative, sollecita le opposizioni.
Sgalambro muove da una arbitraria assolutizzazione di concetti per stabilire un rapporto tra universale e particolare in cui quest’ultimo ci va sempre di mezzo. Così come muovendo da una idea di filosofia in sé, può considerare la miseria dei filosofi («Vedo i filosofi, ma non vedo la filosofia» Anatol dice; li vede uscire «come topi dalla fogna», essi i quali «scrivono… senza aver niente da dire»); allo stesso modo interviene rispetto all’opera d’arte compiendo un illegittimo rapporto con l’idea di bellezza per poi concludere: «La bellezza distrugge l’opera d’arte attraverso cui appare». Ma si tratta di apparenza, poiché non è affatto scontato che l’artista abbia come fine il bello, semmai tendendo a tradurre in ritmi e figure certe emozioni, soprattutto si preoccupa della composizione, cioè di rapporti, di proporzioni, di concordanze e di contrasti; di simmetria, dunque, di tecnica. Non credo che Dostoevskij o George Grosz si proposero opere belle, ma non c’è dubbio che i libri dell’uno e i disegni dell’altro siano opere d’arte. Flaubert, in una lettera, dichiarava di voler scrivere «un libro su niente». Sono gli altri a chiamare bella un’opera, cioè «dopo», come dice Sgalambro. Del resto, anche le stelle sono belle, senza averne alcuna intenzione. Allo stesso titolo posso dire bello il libro di Sgalambro (è bello), prescindere dalle sue intenzioni e senza alcun bisogno di convocare spiriti platonici.