Stefano Lanuzza in Il Ponte, IVL, n. 2, febbraio 1990, pp. 146-148
Come si muore? Si muore, tutti, sempre «assassinati ». Chi è il filosofo anticonformista? Forse un vero e proprio «delinquente della conoscenza » (p. 35). Come si rimane bambini? Diventando adulti presto. La sincerità? È impudicizia. «Il filosofo è tutto fuorché franco e leale » (p. 47). Le idee? Le nemiche della verità. La forza della vita? E stata surrogata dalla forza del denaro. Il compito della filosofia? «Diminuire le tracce di volontà nel mondo» (p. 83). Il rapporto con la verità? «Duro e ributtante» (p. 85). L’individuo? Nient’altro, «in un’epoca in cui l’individualità s’è estinta», che «un fenomeno da baraccone. Come il nano o la donna barbuta» (p. 92). La verità? Qualcosa che, «come la merda dei cani, si trova per strada» (p. 98). L’uomo «virtuoso»? Un ipocrita. Tutti gli uomini? Vanno ormai distinti fra coloro che scrivono e coloro che parlano. Questi ultimi, nel tempo in cui «solo la voce stridula si fa intendere», somigliano «sempre più alle stupide bestie» (p. 100). La ragione? «Odio metodologicamente organizzato contro la realtà» (p. 109)…
Ecco alcune risposte radicali d’un libro «nero», freddo e aggressivo; d’un calepino e brogliaccio simile a un fosco cespuglio di rovi che s’arruffa e geme come un mostro ferito nella rosea radura delle filosofie liliali e dei «pensieri deboli» che tanto ci aduggiano: ecco questa scostante opera di Manlio Sgalambro, appropriatamente intitolata Del metodo ipocondriaco (Catania, Il Girasole, 1989), uscita dopo il memorabile La morte del sole (Milano, Adelphi, 1982) e il singolare volume di «teologia atea» Trattato dell’empietà (idem, 1987).
È un libro apparentemente «minore» nell’avara e riottosa produzione del filosofo siciliano, nel quale la tensione del pensiero conferma una strenua qualità espositiva che a tratti sconfina nella maieutica e in un’interrogazione continua, concentratissima nel dare «risposte». Una filosofia, appunto, come risposta, quella esplanata in Del metodo ipocondriaco: risposta puntuale, generalissima nella sua specificità, mai elusiva, mai «indiretta», giammai consolatoria, ma ferma e determinata, « recitata» in un teatro della crudeltà che è quello stesso dell’esistenza. Una risposta mai volgare, mai mediocre, mai fiacca, e sempre veritiera, ferrea, vivace, a tratti sconvolgente per la sua spietatezza, animata da quella passione algida che è coscienza profonda della «verità ultima»: coscienza dell’irredimibile Nulla. Passione e coscienza, altresì, del proprio filosofico e non solo filosofico rancore verso quel nihil in cui sono surrogati Dio, il mondo e i sistemi; solipsistiche e maniacali passione e coscienza d’una filosofia intesa in senso «totale», e come, magari, deforme sintesi di un impossibile senso dell’essere; come relitto da esplorare e riportare alla luce d’un rammemorante sguardo filosofico.
L’umore nero, il nero sole della malinconia, l’ipocondriaca certezza che tutto è perduto proprio perché tutto è tremendamente presente, violentemente esposto nella sua iper-realistica nudità, viene metabolizzato dal filosofo in un canto pieno di acuti modulatissimi, vitreo e balenante come un cuneo di ghiaccio.
Libro nudo e funebre come una luce di coltello o un allarmante profilo di pistola (lo stesso Sgalambro rivendica la necessità di questo suo pensiero-coltello-pistola così come Nietzsche affermava l’esigenza d’un «pensiero-martello»): libro di quadri analogici, di tasselli d’un pensiero che si disperde per partenogenesi, si espande «per li rami» e si radica, come un rizoma, nell’inquietudine limacciosa che mina il pensiero e che, come affermava Hegel, inquieta il filosofo rendendolo ipocondriaco, cioè «inadatto» ad appartenere all’Istituzione Filosofica.
Contro Hegel e la sua concezione universalistico-istituzionale del sapere, Sgalambro eccepisce il proprio tagliente «pensare breve », che è appunto il pensare ipocondriacamente, cioè anche poeticamente, con volubilità non ingabbiabile, con libertà: consapevole che il pensare non è condizione ma opzione, atto d’incostante volere, che, in quanto tale, è soggetto alla stanchezza. Da cui l’aforisma, cioè il pensiero sottratto al monumentalismo delle filosofie sistematiche che vorrebbero rinchiudere il mondo in uno schema. Aforisma come risposta secca e immediata, come «colpo d’occhio» senza esibizionismi, come particolare in cui si concentra ogni generalità, come «cenno su cui ci si intende solo tra coloro sui quali il torto subìto lasciò impresso un segno» (p. 43). Aforisma, infine, come ragione ultima della filosofia, piccolo cartiglio, artigliante, cui l’Ultimo Filosofo affida il proprio pensiero scritto, il proprio devastato testamento e il proprio vale.
In questo senso, non c’è filosofia, così come, certo, non c’è poesia, se non nella scrittura. Allora – scrive Sgalambro – «se ci si chiede […] dove esiste una filosofia bisognerà infine rispondere disperati: sulla carta come un quadro sulla tela» (p. 42).
Nella lapidarietà dell’aforisma, la strenua essenza d’un pensiero che metabolizza quasi edonisticamente le filosofie «didattiche»: «A queste va il nostro cuore» (p. 49) scrive Sgalambro, posto che, per l’autore, una filosofia è didattica «in virtù di se stessa, solo di se stessa» (p. 49) e «perché non ha bisogno di nessuno che la insegni» (p. 50), cioè non abbisogna della solidarietà fra docente e discente: in quanto, per Sgalambro – ed ecco una chiave del suo anti-umanesimo, del suo essere, nietzschianamente, nemico dell’«umano troppo umano» – « non ci può essere solidarietà senza ignoranza di ciò che è l’altro». Allora, se volete essere solidale con l’altro, «non guardatelo» (p. 56)… Sono considerazioni di chi, un giorno, s’era forse aspettato troppo dall’uomo.
Il disprezzo verso l’uomo non è inferiore al disprezzo verso Dio, anche se nobilitato inconsultamente dall’affermazione: Dio non esiste; in fondo, per il filosofo, visto che l’esistenza è obbrobrio, «Dio ben meritava l’esistenza [… e] l’esistenza ben meritava Dio» (p. 71).
In tali fulminee sintesi il sostanziale illuminismo, non privo di debiti verso la Scuola di Francoforte, d’un filosofo anomalo che per il piglio delle sue argomentazioni è già un piccolo, ma certo non «sistematizzabile», classico della nostra modernità. Come tale lo si può leggere: egli è un filosofo che, dopo tutte le domande sui massimi sistemi, ci ricorda che è tempo di risposte, e ce le addita… Cos’è il dialogo con gli altri? Un traffico ignobile. Meglio la notturna solitudine, perché «di notte si monologa» affinando le armi del pensiero e si danno risposte risolutive, «come dei re» (p. 11). Così, «quando rimarremo soli sapremo di sicuro di noi e ciò che fummo si vedrà in ciò che saremo» (p. 12): ed ecco lo sconsolato, ma fermo e dignitoso ghigno di Eraclito…
C’è – con una solitudine sdegnosa e insieme golosa del mondo, con una coscienza infelice alfine felice d’essere infelice – un suono di verità, ora bisbiglio e ora clamore, nelle parole del filosofo, una non metafisica sprezzatura che è, soprattutto, paradossale gioia del disprezzo di vivere.
Filosofo neomaieutico, Manlio Sgalambro ci ricorda ancora una volta che è morto il sole, ed è morto ogni colore: rimangono i bagliori d’un tizzone ardente che s’incenerisce, i fuochi fatui della fredda luce d’un tramonto che si compie come un indifferibile destino. S’impari allora, e i veri filosofi lo insegnino, che «solo i morti sono in grado di pensare o chi sa vivere come se lo fosse » (p. 54).