Manlio Sgalambro in La Sicilia, 29 ottobre 1989, p. 3
Meditazioni provinciali
Quanto poco sia possibile una morale che oltrepassi la sfera privata, lo si constata già ove questa sembra raggiungere la spinta massima e perciò debordare nel sociale. Così parve infatti a rappresentanti, tra i più severi, della tradizione kantiana. «Agisci in modo tale che tu usi della tua persona, come della persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai semplicemente come un mezzo. Mediante queste parole è formulato il senso più profondo e più pregnante dell’imperativo categorico. Esse contengono il programma morale dei tempi moderni e di tutto l’avvenire della storia del mondo… Tale è il nuovo senso della libertà… L’idea della preminenza dell’Umanità come fine diviene con ciò solamente l’idea del socialismo, in modo che ciascun uomo sia definito come scopo finale, come fine in sé» (Hermann Cohen, Ethik des reinen Willens, Berlino, 1904).
Senonché proprio questo – trattare sé e l’altro come fini – renderebbe una società, quale insieme strutturato di necessità e funzioni, impossibile. Si vede ben presto come tale imperativo debba restare, al più, morale; guai se non fosse così. Si immagini una società in cui il principio di trattare l’altro come fine superi la sfera dell’intenzione e si tramuti in un rapporto sociale. In che modo un padrone di casa può trattare come fine l’inquilino moroso? In che modo il negoziante, il suo cliente? La società conosce un solo modo: mediante la trasmutazione chimica dell’inquilino, del cliente, eccetera, in «uomo». Che poi sarebbe l’idea che ciascuno ha di sé e dell’altro ma giammai la realtà in cui si è inquilini, padroni di casa, ecc. e non «uomini». Ove non fosse così, ove il principio anzidetto si tramutasse, per un improbabile miracolo, in realtà la società perirebbe istantaneamente.
«Lavorare è morire; lavorare per un altro, è morire per un altro», scrive Proudhon. Dove, anche se in maniera enfatica, è reso conto dello “sfruttamento” insito in ogni rapporto di tal genere e in cui già non si tratta se stessi come fini. Ma che durerà finché durerà la società. La società infatti ancora prima di essere giusta deve esistere. Ed è probabile che essa possa solo esistere ma non essere, per giunta, giusta. Forse il deperimento della società verso uno stato per ora inimmaginabile potrà un giorno dirsi tale.
Che la società che sortirà dall’emancipazione degli individui, dalla fine dello sfruttamento, ecc., debba dirsi società «migliore», questa è una concessione che la filosofia dovrebbe fare alla propaganda. Ma essa non può farlo per fondati motivi. Radicalmente sbagliato è pensare che in una siffatta società si vivrà «meglio». Proprio perché sarà totalmente eliminata, ad esempio, la miseria, la miseria della vita non sarà più attutita. Ma nitida, non più ombrata da nulla, ossessionerà i giorni. La grande fiera è finita.
Il focus del pessimismo, il suo luogo decisivo, diventa la società. Non il soggetto isolato, cioè, può dirsene portatore – come da Schopenhauer a Bahnsen – ma la società nel suo insieme. Questo significa che è la società nel suo tutto che deve prima diventare soggetto. Ciò che Schopenhauer, nel terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione, assegna come compito all’individuo: diventare puro soggetto conoscente, può attuarsi solo come «società», società emancipata e libera dalle ossessioni economiche. Il pessimismo diverrà allora condizione generale.
Quando il pessimismo si scontra con l’ottimismo socialista di maniera, il risultato «antiprogressista» è scontato. Ma lo è nei limiti in cui Bahnsen, questo grande esponente del pessimismo ottocentesco, parla di ciò di cui il pensiero socialista tace. Che è impossibile, come Bahnsen si esprime, sia «l’annullamento come la salvezza del mondo» (ci riferiamo all’opera Der Widerspruch im Wissen und Wesen der Welt, II, Leipzig, 1882). Tutto ciò sembra «antiprogressista» ma lo è solo nei confronti della visione volgar-filistea del socialismo, quella dei battaglioni di canaglie che marciano sulla meta al rullo dei tamburi.
Il completo misconoscimento della corrente pessimistica nella filosofia della seconda metà del XIX secolo – mai del resto presa sul serio dalla storiografia – condusse ad opporre socialismo e pessimismo. Basterebbe tuttavia ricordare Mainländer, per smentire questa leggenda «progressista». Mainländer, nel suo capolavoro Die Philosophie der Erlösung, riconosce nei tre ordini – economico, politico, intellettuale – un progresso ordinato. Esso avviene, dice Mainländer, attraverso la sofferenza, ma proprio attraverso questa la società cammina verso un siffatto stadio in cui non vi saranno più diseredati e tutti gli uomini, avendo a portata di mano i beni agognati, ne scopriranno concordemente l’infimo valore e si eleveranno così verso il totale riposo del niente.
«La filosofia pessimista – afferma Mainländer – sarà, per il periodo storico in cui entriamo, ciò che la religione cristiana è stata per il periodo che finisce». Mainländer rappresenta dunque il versante socialista del pessimismo. Il suo socialismo «pessimista» è conseguente. La società giusta e pacifica sarà quella in cui tutti gli uomini avendo soddisfatti i loro desideri e avendo trovati vani e futili i «beni» saranno ormai aperti e disponibili al Nirvana.
In definitiva Mainländer obbietta a Schopenhauer che come la colomba ha bisogno dell’aria per volare, così ne ha bisogno la volontà. L’aria però non è che la società stessa. È qui dunque che la volontà alligna. Si intuiscono le ragioni per cui non c’è, in Schopenhauer, una «volontà nella società», ma non appena si sopperisce alla mancanza, si ha la famosa «aria». Essa spazza via la volontà fuori del mondo e la conficca in esso con solidi colpi di maglio. Ma in tal caso tutta la società ne è investita e il pessimismo trova nel socialismo la sua ragione pratica come questo in quello la sua ragione pura. L’intesa profonda tra i due è che ormai si dovrà parlare di annullamento della volontà se si vorrà il giusto. Laddove si additò in altro il luogo dell’ingiustizia, ora si ritorna alla sua vecchissima sede. E qui stesso vi sono la sua sfrenatezza e il suo quietivo.