Racconto filosofico

Manlio Sgalambro in La Sicilia, 25 giugno 1989, p. 3

Meditazioni provinciali

Il filosofo indugia fra le sue trame, vigila che i concetti non si mescolino. I suoi occhi tirano linee, tracciano circoli, spaziano. Lo spirito enuncia gravi sentenze. Lo spirito osa. Gli appaiono ombre, tenui idee che traspaiono come veli d’organza…
Chi volesse fermare il bene come il bell’attimo, non può farlo – si sente una voce. Chi volesse dire al bene «fermati», si troverebbe in mano un pugno di mosche. Si spegne l’entusiasmo per il bene? Il vero ne fuga l’idea che però resta come idea desolata, vecchio desiderio? Oppure?
Si vuole il bene? (non trema la voce del filosofo). Si sappia allora esattamente cosa si vuole. Si vuole lo stesso universale, non è vero? E allora in esso perisce l’individuo che non ha modo di sopravvivere davanti al fulmine di Zeus. Ma guarda meglio. È l’Uno forse il bene? Non si è detto (un’altra volta si disse, infatti) che da esso l’individuo è preso e ingoiato? Quando si vuole il bene di qualcuno si vuole allora la sua morte individuale? Consultiamo la mente. Essa ci ammonisce che volere il bene di uno è volere assolutamente che egli non muoia. Tutto qui? Tutto qui. (O caro, ti trascini sulle ginocchia, i sensi fanno piroette, stringi i denti, alla maniera dei forti: osa).
Lo colpiva talora la tabe dei pensatori, la malinconia e l’accidia. Se ne stava inerte, non scorreva in lui un filo di forza vitale, ma rimuginava, solo il pensiero viveva. Deplorava, in filosofia, l’uso dell’io raccattato, diceva, dai suburbi, degno di Encolpio e di Lucio e la suggestione di esso. Plotino, che ancora l’usò, aveva raggiunto l’estasi quattro volte, Lutero credette, sola fide, soltanto due volte. Un’infinità di individui raggiunge l’orgasmo un’infinità di volte. (Veramente Plotino, amico tu ti sei incontrato con Dio solo una volta, un giorno del 270, era la morte).
Riemergeva in lui la volontà di essere individuo ma come volontà di essere autore di un’opera. (La filosofia, diceva, non è che un’opera).
Non gli sembrava che essere un autore fosse agire e ne era lieto. Si riunivano perciò così l’ordine biologico con l’ordine dell’opera. Si completava. La sopraffazione gli sembrava ora tutt’uno con l’intenzione. Vedeva il regno della verità, disarmonico e crudele. Qualcosa a un tratto si affermava, prepotente e cieco, ed ecco: era vero.
Riteneva comunque che vi fosse un solo pensiero: quello dei signori. Il pensiero che guarda dall’alto in basso anche Dio, diceva. (Amico, tu insegui le pianure di cristallo che io rintracciai già nei tuoi occhi. Un’unica luce proviene da essi, da te…).
Agisci come se ci fossi sempre io, dice il filosofo. Non conoscere altra morale che quella del timore. In ogni caso non seguire, guardatene, quella dell’amore… (Gli sembrava di essere caduto in una sorta di gorgo e di esservi trascinato. Avvertiva il suo corpo, menzognero Descartes, prima del pensiero. Sentiva così di fare parte del cosmo, come una stella. Nient’altro che così: ma occorreva percepirlo. L’abitudine a fare parte di una specie – trista abitudine, infine – gli aveva attuato ogni senso cosmico, il suo corpo siderale. Solo la sua mente orgogliosa intuiva).
Pensava dentro l’ordito di un racconto. L’intreccio non era dato dall’assassinio di una veccia o dall’amore per Carlotta. Ma da pensieri che dovevano rispondere di sé a una emozione.
Il comico è la critica provvisoria dell’azione. (Gli venne improvviso questo pensiero). Solo chi non riesce a pensare, agisce. Immagine artefatta della possibilità, l’azione la ridicolizza. L’uomo d’azione e buffo. Egli imita l’agire come sarebbe se fosse. Perciò il senso del comico ne sprigiona irresistibile. Tagliati fuori da ogni scopo, i suoi atti penzolano nel vuoto. Il tragico suppone la serietà dell’agire mentre ormai abbiamo solo un agire che si prende sul serio, dice il filosofo.
(O Posidonio, il calore è in ogni cosa e l’anima stessa ne brucia. Tu l’hai sentito. Nella regione del fuoco celeste – essa è fuoco ugualmente – ogni intelligenza arde e crea le grandi chiarezze della tua gente. Tu l’hai capito).
Cosa sono queste montagne in cui si aggirano certi spiriti? Chi sono questi signorini? Essi amano certo l’altezza e prima ancora amarono ascendere e prima ancora Dio. Essi hanno dunque una nobile ascendenza…
Dovrebbe essere evidente, sussurra il filosofo, nella rassegnata dolcezza di una cosa accettata, il suo stretto connubio, con una fisica: niente metafisica senza fisica, ciò si sapeva una volta. Essa riacquista la perduta evidenza appena riconosce il suo triste debito. Una fisica grama, impotente, costretta ad ammettere che l’ordine regna nel mondo, proprio come la metafisica.
Il filosofo traduce il suo George: «Io so che in oscuri paesi conduce il viaggio / Dove molti perirono, pure col mio Maestro / Affronto i pericoli, perché il mio Maestro è saggio». Chi insegna un solo pensiero non si riconosce nella vaga definizione di filosofo. Egli non conosce che una sola verità è qualche antica canzone d’amore. E sogna solo un discepolo che gli aggiusti il cuscino sotto il capo quando è stanco e gli racconti belle e tristi storie al calare della sera.
Una conoscenza al di là di tutte le cose umane. Una conoscenza che non perdoni, crudele e senza grazia. Ciò che si può raggiungere solo poi in un momento e poi ci abbandona. La conoscenza per una sola volta.
Ricordava la vecchia definizione di Simmel del filosofo come avventuriero dello spirito. Per valutarla come si deve si deve avere vicino l’altra definizione dell’avventura come l’uscita dall’insieme concatenato della vita. Il filosofo si rispecchiava in essa. Andava per deserti, si impegnava in combattimenti, capeggiava battaglie, volava come un’aquila o strisciava come il più superbo dei rettili che d’improvviso si erge e colpisce. I venti più rudi gli sferzavano il volto e i rumori delle intricate foreste gli occupavano la mente. Inconsueti e struggenti.
Il vecchio cavaliere andava per la sua strada; age crusting him with a salt cloak: la vecchiaia lo incrostava di un manto salino.