Manlio Sgalambro in La Sicilia, 17 settembre 1988, p. 3
Meditazioni provinciali
«Se ha un qualche senso parlare di un oggetto estetico allora si tratta di qualcosa che si manifesta in presenza di un quadro, di una scultura, di una poesia, di una frase musicale…».
Max Bense, EsteticaLa classificazione in bello naturale e artistico, con la supremazia di quello artistico acquisita nella malfamata filosofia dell’arte, non riesce più a seguire la complessità della contemplazione estetica. Anzitutto la stessa dicotomia sembra manchevole e non già per eccesso, come se il bello naturale fosse solo una petizione. Si potrebbe aggiungere ad essi il bello tecnico, al quale il sentimento estetico dà oggi il suo assenso. Ma certamente si potrebbe parlare di un bello teorico, particolarmente di un bello filosofico, di un bello matematico nei quali cadrebbe acconcia la distinzione della Critica del giudizio tra pulchritudo vaga e pulchtritudo adherens. Essi sarebbero pulchritudo vaga, come un fiore, non adherens come una cattedrale.
Solo estetiche attardate sono ancora ferme all’opera d’arte – compresavi ovviamente la cosiddetta arte figurativa – mentre la sensibilità estetica si sfama anche altrove. L’estetica è ancora ferma all’opera d’arte a cui essa si aggrappa teorizzandola come se non dovesse anzitutto ascoltare i rintocchi della sensibilità estetica e da essa farsene dire i limiti. Proprio l’esperibile estetico dovrebbe spostarli. Là dove cade la sensibilità estetica, nel suo divino arbitrio, là segue la contemplazione. Là stesso comunque dovrebbe andare alla ventura l’estetica. Essa non ha altra norma che quella prescritta dalla sensibilità. Da quando l’estetica non fissa più norme. Se in ogni arte sono presenti momenti intellettivi, così si potrebbe dire che in ogni opera intellettuale vi sono momenti estetici. Ma ciò o è un banale altruismo oppure i Principia Ethica o Appearance and Reality sono belle proprio in sé. Questo non ha niente a vedere col fatto che l’opera filosofica sia bella malgré soi. Di ciò giudica non la quantità di elementi artistici disseminativi, ma «l’arbitrio» della contemplazione estetica. Del resto «concetti» vi sono nell’arte come «intuizioni» nell’opera filosofica. Ciò che importa è la loro tensione, contrariamente all’opera d’arte, non vi è nell’opera filosofica la volontà d’arte. Ma con un cenno la contemplazione estetica la chiama a sé.
A noi interessa questo squarcio estetico che annette l’opera filosofica come se solo in essa fossero rimasti intatti i requisiti dell’arte e nello sguardo retrospettivo riconquistati alla contemplatività estetica sottraendoli all’ordinario uso «storico-filosofico». Ciò che fu fatto senza volontà d’arte, o proprio per questo, rimanda alla contemplazione l’imago del bello, del soddisfacente in assoluto. L’elemento artistico passa all’opera filosofica che lo conserva in sé come la cosa più cara. Ora è l’opera filosofica che è bella. Di essa, del suo contemplato, resta l’idea come tutt’altro, anche se essa fosse inabissata nella realtà sino al collo. Dalla chiacchiera storico-filosofica si passa dunque alla contemplazione estetica. Si può concedere che l’opera filosofica è l’opera d’arte tarda. Si stia attenti alle Enneadi. Esse si possono considerare un racconto. Come tali mostrano da più di un segno che una volontà d’arte non fu loro estranea del tutto: sorprendenti eredi di un noto passato. Ma come opera filosofica, solo come tale dobbiamo occuparcene e come tale essa diventa oggetto di estasi estetica. Ci si unisce ad essa come con l’Uno di cui vi si racconta. Quello che dovevamo avere e non avemmo ci viene dato in qualche modo. Questo modo è il bello.
Non i tratta di stabilire quale sia l’arte «per eccellenza»; come se a rispondere non si precipitassero tutte alzando la mano. Ma dove essa si possa sentire ancora tale. Essenzialmente in questa domanda si uniscono filosofia e arte ma senza formare – questa dovrebbe essere almeno la scommessa – alcuna filosofia dell’arte. Che l’opera filosofica possa essere l’oggetto della contemplazione estetica, ciò dunque non è supposto in virtù di una filosofia dell’arte, ma perché il nucleo resistente del bello sembra esservisi rifugiato. Nell’era in cui non si parla più di bellezza artistica e suoni e colori sfumano nell’indifferenza, l’insieme dei concetti manda echi ammalianti. C’è tanta malinconia nella Critica della ragione pura quanto in una grigia giornata autunnale. Ad ogni «fine dell’arte» su qualcosa cade il compito di rappresentarne l’agonia. A maggior ragione se da essa sia talmente lontana la volontà d’arte che anzi comunemente dia a vedere tutt’altro.
Più importante dell’arte è qui considerata la contemplazione dell’opera. Se non ci fosse più arte, ce ne sarebbe sempre abbastanza perché non finisse «mai» il più impopolare dei suoi risultati. L’opera d’arte, senza che essa se ne renda conto, anzi parteggiando manifestamente per l’opposto, scompare sempre più davanti alla contemplazione estetica. Si spiega così perché l’agonia dell’arte non coincide con quella della contemplazione estetica. Se il raffinamento di questa non è semplicemente soggettivo – questione appunto di raffinatezza – allora un’opera di fisica teorica, o i Principia Mathematica, possono fornire l’occasione alla contemplazione estetica allo stesso modo della Recherche. (È vero che ad essa può bastare anche un ciottolo, goccia d’acqua…). Ciò che c’è in queste opere di «estetico», può essere colto dal soggetto così differenziato da poterlo ritrovare, come avviene per la malinconia, in cose difformi. Ma è quando la contemplazione si appunta sul concetto che questo manda bagliori. La bellezza evocata non lo sfiora da lontano, come se la cosa non lo riguardasse ma sembra che sorga dalle sue stesse viscere, dal più intimo di esso.
Così l’opera filosofica, mentre placa il suo pathos e rifulge nel concetto la conquistata quiete, concedo allo sguardo estetico, come supremo dono, la stessa bellezza invano cercata nel mondo che un tempo fu esclusivamente suo.