Manlio Sgalambro in La Sicilia, 10 settembre 1988, p. 3
Meditazioni provinciali
«Quel che l’artista cerca di fare è di esprimere una data emozione. Esprimere questa emozione ed esprimerla bene sono l’identica cosa… Ogni manifestazione ed ogni gesto che ciascuno di noi compie è un’opera d’arte.»
R. G. Collingwood, The Principles of ArtL’elevata coscienza di un’opera filosofica tramuta il rapporto con essa in godimento artistico, in gusto. Non soltanto come conoscenza e sapere, ma come di emozioni vale dunque l’opera filosofica. Su essa si sofferma il gusto, come opera bella. Opere come la Fenomenologia dello Spirito, il Mondo come volontà e rappresentazione o Apparenza e realtà, non si mutano in opere d’arte come se dopo i1 loro fallimento terreno di esse fosse rimasto almeno questo. Esse restano fermamente ciò che il destino volle che fossero. Ma proprio come tali colpiscono il senso estetico: come oggetto di contemplazione.
L’elemento che accomuna un’opera di poesia ad una di filosofia non è da cercare perciò nella loro struttura, ma nello stato cui assoggettano il contemplare. A partire da questo, però, si è pure certi della possibilità che godono entrambe. In ogni caso proprio qui l’opera filosofica raggiunge, paradossalmente, il suo massimo di comprensione piuttosto che attraverso i consueti mezzi. Come opera d’arte l’opera filosofica arriva a quello a cui raramente pervenne quand’era tale. L’obiettivazione dell’opera di filosofia – usualmente affidata al basso livello dell’interpretazione – trova invece nella contemplazione estetica l’assolutamente adeguato. Una filosofia deve restare un enigma per il volgo ed essere come una musica da canna per l’iniziato. Che erosa si sciolga nella bellezza è il suo destino finale.
Il mondo trasfigurato dall’opera filosofica si dà in essa mediato dalla stessa. Alla contemplazione l’opera filosofica appare unicamente come forma. Anche il nucleo perituro dell’opera filosofica passa indenne attraverso lo sguardo estetico del contemplante e si salva.
Filosofia senza espressione è vuota – così potrebbe dirsi dunque dell’opera filosofica. Infatti senza un elemento espressivo il generico filosofare non arriva mai ad essere un’opera. Ma in che è bella l’opera filosofica? Anzitutto in ciò che non adempì. In ciò che non poté mantenere. Proprio perché essa è separata per sempre dalla realtà, per questo, come l’arte, non vi appartiene. Chi si rivolge ad essa sente ora solo immensa nostalgia. Tutto è perduto fuorché la forma. Eternamente inadempiuti restano infatti il «Nirvana» e lo «Spirito Assoluto», ma non la forma che presero entro la quale splendono entrambi. Nella contemplazione sono restituiti all’unica realtà che loro tocca. Ma qui sono tutto.
Nella contemplazione estetica si salva il loro nucleo di verità che è dato, per casi dire, ancora una volta, ma definitivamente. Il rimpianto per l’inadempiuto Nirvana che colpisce il Mondo come volontà e rappresentazione ne rafforza però la bellezza come opera. E lo è in quanto sperò invano e non poté andare al di là della forma. Questa impotenza la salvò. Perché quella reca con sé la verità che la realtà le rifiuta. Il Mondo come volontà e rappresentazione e la Fenomenologia dello Spirito sono vere nella forma che si offre come un tutto alla contemplazione estetica. Noi sentiamo la loro bellezza in questo contrasto: perché tanto osarono e con tutto ciò non oltrepassarono la forma.
L’opera filosofica è vera opera d’arte non perché mi abbia rinunciato sia pure per un momento alle sue prerogative, come se l’intenzione fosse diretta a quest’ultima anche per disperazione, ma oggettivamente. Soggettivamente l’opera filosofica non presenta nessuno dei requisiti richiesti dall’arte, ma essa lo è rispetto all’elevata coscienza del contemplante. La coscienza estetica che già si soddisfece nell’arte trova qui appagamento, nell’opera filosofica. Nella sua contemplazione si rende libero, ora, alla coscienza elevata, ciò che era già in essa ma attendeva il suo momento. E questo senza che il filosofo lo sapesse.
Come oggetto di contemplazione estetica l’Ethica mostra nella composizione la sua stessa filosofia realizzata. Solo come opera. Essa è veramente l’apparire sensibile della filosofia di cui parla. La pace avvertita è la quiete dell’opera compiuta. Lo spegnimento delle passioni è l’effetto catartico che si sprigiona da essa. Ciò a cui non riesce l’etica quætalis, avviene esteticamente. Cosi l’opera filosofica dona conoscenza e bellezza. Ciò che è triste è che essa non sia «vera» ma soltanto bella? Ma attraverso la bellezza si apre una via di comprensione eccezionale, tutt’altra dalla comprensione «filosofica» ma che ha i suoi diritti. Dovremo forse dare retta a The Sense of Beauty dove Santayana si permette di dire: «L’arte è la risposta alla domanda di svago, e la verità entra in essa solamente in quanto sia utile a questo fine»? Ma se il bello appaga esso lo fa contro il «piacere»: l’arte è «dispiacere» in cui dispiace l’essere stesso.
La filosofia è arte involontaria. Essa si realizza nell’autonomia di un’opera. Chi coglie il Leviathan nell’unità di uno sguardo estetico, non viene preso dalla paura, dal pathos della morte violenta che consegna in mano al potere. Egli ne resta immune. Il palcoscenico dell’azione moltiplica vacue immagini. L’agitazione, la paura mortale, l’affanno dei protagonisti, sgombrano il campo. La pace in mezzo al pericolo della morte violenta è data in sovrappiù, alla sola contemplazione estetica. Senza che l’opera muova un dito. Senza che avvenga nulla. Il Leviathan non si realizza in uno Stato ma nell’animo del contemplante dove i concetti sono indistinguibili dai suoni. Così ne è dell’opera filosofica. Chi ne cerca al di fuori ciò di cui parla, torna da capo tra le nubi. Solo in osa è dato ciò che è promesso.