Nell’anno della peste…

Manlio Sgalambro in La Sicilia, 3 luglio 1988, p. 3

Meditazioni provinciali

«C’era in Londra una terribile peste / Nell’anno sessantacinque / Spazzò via centomila anime / Eppure io vivo».
Defoe, A Journal of the Plague Year

Il viaggio
Come dei piccoli Odissei vanno avanti e indietro senza che «vedano» niente. Chi sa tutto questo non viaggia, sta fermo. Solo così vede il mondo. Lo diverte l’Inno al viaggio di Stefan Zweig: «Le frontiere si spezzano, pali di vetro. / Lo spirito unisce le lingue straniere…». Illusione di chi viaggiò ma poi tornò a mani vuote. A chi piacque sempre la casa, spaziare in mondi lontani non fu congeniale. Andare via da casa era una colpa che il ritorno da vecchi non espiava. (Il vero viaggiatore, dimentica di ritornare). Lo stesso spirito critico, che segnò con altissime mura i confini del mondo conoscibile, nacque dalla riluttanza ad abbandonare la casa a vita, simbolo del patrimonio e delle cose care. I limiti che esso impose rispecchiavano il cortile, i muri, le care stanze in cui si svolgeva la vita quotidiana e si educavano i figli e si moriva. Oggi non soccorre più nemmeno la «scoperta», perduto premio del viaggio, e delle città sono rimasti solo i gloriosi nomi. Un francese che viaggiò molto si chiese curioso: «Les villes modernes méritent-elles mieux qu’un séjour de sept à huit minutes?». Chi lascia i muri screpolarsi non accetta che si cancelli il passato, né di scongiurare il tempo che trascorre, col sortilegio. Essi ne segnano il discorso, mentre si stingono le pareti. Nelle care ferite si celano tenere ombre.

Vecchia filosofessa
La vecchietta che sgambetta per il mondo per godersela, tanto più, come per Peter Gilgus, che non c’è l’Orso bianco, si comporta come fosse ogni giorno festa o, dice Gottfried Keller, come il sorcio quando il gatto non c’è più. Essa ammira le azzurre profondità del cielo senza nubi e senza Dio… Ma tornata a casa, piangerebbe sulla sua minestra se sapesse che Dio la sta aspettamelo assieme alla morte.

Stanza d’albergo
In una stanza d’albergo non si è solo lontani da casa, ma da quel mondo che ci fu familiare dalla nascita e dove si svolse la nostra vita. È come se ora si fosse fuori da esso e da ogni cosa, in un punto senza dimensioni, in un luogo magico che solo lo spirito saprebbe notare come allorché si era bambini e c’era un punto inviolabile dove si era al sicuro e niente poteva accadere. Solo cose meravigliose. Nulla più si rivela nei luoghi familiari in cui un tempo abitarono persino gli dei e ora nemmeno gli uomini. La casa non ha più scopi, se non per vecchi nostalgici. I più rozzi bisogni si soddisfano tra moquette e cristalli preziosi. Abitare non ha più alcuno scopo. La casa e ormai solo un grande water. (Eppure il cielo vi entrava dalla finestra, una volta).
Ciò che un tempo fu il monastero – esso garantì dalla casa dove stava in agguato il demonio – oggi è la stanza d’albergo. I corridoi silenziosi sono tali e quali le strade come saranno dopo la fine del mondo e celle sono le stanze, dove puoi dire le tue orazioni o bestemmiare. Come se su di te si chiudesse la volta celeste, come se non dovessi più uscirne. Da un momento all’altro la porta però si può aprire e l’incanto spezzarsi come un bicchiere. Ma fino a che ti puoi chiudere dentro nulla ti può accadere.

Cattivi rumori
Da palazzi avanti negli anni, case sfrecciate. fumiganti da cattive minestre e di liti, s’innalzano come da un invisibile camino, luminosi pensieri, note che percuotono il grande sonno delle cose come se volessero svegliare i morti. Tutto questo non avviene nelle linde case, fornite di patio, dove le piante convivono con i padroni sorse se fossero di famiglia. Tutto ciò che costoro producono scende veno il basso e l’unico suono che l’accompagna è uno scroscio d’acqua.

Critica dei nervi
La sostituzione di una «critica dei nervi» alla tradizionale critica della ragione appartiene agli eventi fisiognomici di quest’epoca. Sebbene essa sia finora debolmente avvenuta. Intendere in termini di nervi ciò che fu compreso come «ragione», ubbidisce, oltretutto, a quel compito di sviare che un dimenticato attribuì alla vera maestria. In questo travaglio si intravede la direzione di una critica che non ha ancora trovato la possibilità di esprimersi totalmente e di porsi perciò autorevolmente al posto delle vecchie ninne nanne. I cosiddetti sensi non hanno il sonnolento ménage attributo loro da Locke e Kant. Un colpo di pistola è una reazione causale così inconfondibile che non ai tempi di Hume la partita a bigliardo tra gentiluomini illustrata nei Philosophical Essays concerning Human Understanding. Una tensione nervosa trasforma questi deboli impulsi in un fato. Allo sguardo agitato, essa è data come un nesso tra incubi. Se la ragione è esclusivamente un sistema nervoso, ciò che la vecchia puttana chiamò le sue Idee sono solo ambivalenti barriere che con la loro efficiente «pazzia» difendono l’individuo da qualcosa di peggiore, da ciò che lo distruggerebbe. La nevrosi, che nella visione classica, impedisce il godimento, assicura quel godimento che essa stessa nel frattempo è diventata. Il blocco davanti alla cosa in sé elevato da Kant tramite la controversa dottrina delle Idee è l’inibizione nevrotica rivolta a ciò che potrebbe distruggerci solo che lo si conoscesse. La reazione idealistica contro la «realtà» è la malattia mondiale per cui essa la vede, attraverso se stessa, come sana. Ciò che si colpisce in piccolo come malattia, in grande è pacificamente accettato. Non c’è maggiore felicità che la felicità di non essere felici.