Trattato. L’empietà porta a Dio

Franco Morandi in Avvenire, 18 giugno 1988, p. 12

Per meritarsi un titolo su cinque colonne da parte dell’Osservatore Romano questo libro di Manlio Sgalambro un merito deve pur averlo. La «fascetta» che lo accompagna sembra non lasciare dubbi: Osservare freddamente Dio. Caldamente, lo fu già abbastanza.
Sgalambro: un autore praticamente quasi sconosciuto, un uomo schivo, un uomo che non incrocia né i salotti letterari né tantomeno frequenta le conventicole dei soli «addetti ai lavori»: già questo biglietto da visita induce se non altro alla curiosità. Oggi questo saggio edito dalla benemerita editrice Adelphi ci conforta non poco.
Presentato come un autore del «pensiero forte» (e così in felice polemica con il «pensiero debole») Sgalambro farà sussultare più d’uno. Libro «apparentemente freddo», in realtà è di quelli che scottano o, meglio, scuotono la nostra pigrizia mentale. Usi come siamo alle formulette, dediti alla fatica di ripetere all’infinito antiquate tesi, soddisfatti per aver dato fiato alla nostra vocazione falsamente apologetica, è chiaro che le pagine di Sgalambro siano  destinate a provocarci un disturbo particolare.
Questo libro sembra così destinato soprattutto ai teologi, ai troppo cultori di una teologia che ha «osservato» Dio troppo caldamente al punto da renderla soffocante. Sono 206 paragrafi: una sequela spietata che non concede quasi respiro. La sferza è ad ogni passo più violenta: «Diventa teologo. Non sperperare la tua intelligenza in una qualsiasi filosofia o a interpretare Kant. Diventa teologo…» (p. 36). E subito dopo: «La teologia è conoscenza del peggio, ciò è almeno tanto vero, quanto falso sia che essa sia conoscenza del meglio…» (p. 38). Naturalmente il voler scandalizzare non rientra nei propositi dell’Autore anche se così, a prima vista, può sembrare.
Dio va pensato in maniera diversa e naturalmente essere diversi non è solo scomodo ma costringe a buttare alle ortiche tutti i nostri faticosi elaborati. Bisogna uscire dal sonno, rompere con il patrimonio accumulato dagli altri, decidersi insomma a rimettere tutte le nostre carte sul tappeto. Una fatica immane, che esige coraggio, che vuole quell’autentica metanoia troppo spesso predicata o mai coerentemente praticata. Via via da queste pagine viene a galla un Dio desueto, un Dio al quale non siamo più usi, un Dio «ignoto».
«L’Occidente – scrive il critico dell’Osservatore – deve riprendere coscienza che il problema teologico resta la sua tremenda serietà ancor oggi, tempo di effeminatezze letterarie e di distrazioni idolatriche…». È a questo punto che l’ateismo entra prepotentemente in scena. Definito come «debolezza dei presunti spiriti forti», l’ateo diventa una sorta di cieco che pretende di vedere il mondo rifiutandosi di spiegarlo perché ogni spiegazione suonerebbe assurda se non blasfema. Oggi infatti «il cielo è solo un oggetto per specialisti e così, poco a poco, tutto il resto. Già, dopo Dio, non si vide nemmeno il mondo. In compenso non si vedono che simili. Ma il vecchio solipsismo ci insegnò che perciò non si vede più niente».
Ma allora l’empietà. È già stato notato come essa deve intendersi alla stregua di spregiudicatezza, ma a nostro parere va aggiunto che questa è la sola condizione oggi possibile per riuscire ad evadere da un mondo prigioniero delle sue presunte certezze che altro non sono che la raffinata calcificazione, ripetiamo, della nostra pigrizia e più ancora della nostra paura di trovarci sguarniti e così indifesi davanti all’assalto di un mondo che è passato dall’agnosticismo alla totale indifferenza.
Per certi versi Sgalambro ci ricorda Bonhoeffer: Dio non va cercato nella malattia ma nella salute, sicché oggi l’Occidente non sa darci che una visione «calda» di Dio quando non ci abbandona, per converso, nelle mani di Wittgenstein.
Ovviamente questo saggio non potrà essere sottoscritto senza riserve ma il suo merito è innegabile. Un libro dunque da leggere in trasparenza sicché non finisca soltanto per proporre «scandalo».