La verità non educa. Socrate era un criminale

Mario Caccavale in Il Tempo, 18 maggio 1988, p. 3

Il pensiero in Italia all’alba del terzo Millennio

Manlio Sgalambro parla dopo 40 anni di silenzio

Manlio Sgalambro è una spia del mondo. Come Giovanni Papini. È nato a Lentini, tra Catania e Siracusa, sessantratré anni ta. Studia, riflette, tace. Da quarant’anni. Sei anni fa, vincendo la sua naturale avversione alla parola stampata, ha pubblicato il suo primo libro per l’editore “Adelphi”, La morte del sole. Ma il libro fu ignorato dal critici, non essendo lui un intellettuale schierato. All’inizio dell’anno è uscito il suo secondo libro, Trattato dell’empietà. Questa volta all “addetti” non hanno potuto tacere. Visto anche l’interesse che l’opera di Sgalambro sta suscitando in Germania. Così gli stessi critici che ieri lo hanno ignorato ora scoprono in lui uno del pensatori italiani più originali dei nostri giorni. Tuttavia l’accendersi dei riflettori non ha mutato le abitudini del filosofo catanese. La mente resta il soggiorno obbligato dove Sgalambro consuma i suoi giorni. Il luogo ideale dove il filosofo sconta la innata vocazione di uomo pensante.
Abita con la moglie e i cinque figli («la mia piccola tribù») in un vecchio palazzo al centro di Catania. E qui, in questa tana che trasuda umori familiari, lo intervisterò.
Respiro aria di Sicilia già sul taxi che dall’aeroporto mi porta in città. «Piazza Vittorio Emanuele III…» dico all’autista. Il tassista, alla mia richiesta, non obbietta nulla. Si limita, secondo un certo modo di fare tipicamente siciliano, a guardarmi senza vedermi. «Via Vittorio Emanuele, lei disse? …». «No. Dissi piazza Vittorio Emanuele…». «Ah, capisco! Piazza Umberto! Noi la chiamiamo così…».
Entro al n. 47 di piazza Vittorio Emanuele. Pardon, piazza Umberto! Mi lascio alle spalle una luce abbagliante e un caldo africano. Sgalambro mi attende sulla soglia, al primo piano. Indossa un pullover bianco dolce vita e una giacca sportiva Non ha le physique du rôle del filosofo classico. Non veste trasandato né ha il colorito pallido. Come spesso lo sono quanti consumano la vita dietro un tavolo, in un rapporto anche sensuale con la pagina bianca o scritta. Il viso è asciutto. Bruno. I capelli argentati hanno vanitosi riverberi azzurrini. Gli occhiali di tartaruga gli danno un minimo di aria professorale. Ma Sgalambro non è un professore. Anzi, non è neppure laureato.
Ora entriamo nello studio, che si apre proprio di fronte all’ingresso. Il sancta sanctorum è un modesto rettangolo foderato di libri. Alla destra, rispetto all’ingresso, c’è uno scattale così alto e così carico di volumi che temi possa rovinarti addosso. Un lampadario pende dal soffitto. E un cerchio di ferro che regge quattro opachi calici rovesciati. Ha ragione Proust! … Alcuni oggetti eccitano la memoria, suscitano atmosfere. Questa vecchia lampada – chissà perché? – mi ricorda la provincia meridionale. Mi rimanda con la mente a quei polverosi studi legali dove codici e prosciutti coabitano serenamente…
Alla parete di fronte, noto due stampe dell’Ottocento. «Mah! Vecchie cose senza alcun significato… Le tengo lì perché, a guardarle, mi infondono un senso di pace…».
L’indomani, quando tornerò in questa stanza per la seconda parte del colloquio con Sgalambro (sarà pubblicata nel prossimo articolo), scoprirò alle mie spalle, su una mensola triangolare, una civetta impagliata. Allora, sbirciandola, penserò a don Benedetto Croce. Il Croce di “non esiste ma ci credo”.
Forse Sgalambro mi legge nel pensiero e sorride. Intanto, dalla piazza sottostante, si levano urla di clacson e un vociare di ragazzi appena usciti di scuola. Questo chiasso, Sgalambro, non la disturba? «No, no. Io e  i rumori viviamo benissimo assieme…».

Quando sentì di essere nato per pensare?

«Quando mi accorsi che gli avvenimenti mi prendevano. Non potevo non analizzarli. Non riuscivo a non tradurli in pensiero. Era come se dovessi trasformare necessariamente una materia bruta. Era una specie di ossessione. Più tardi divenne un metodo, un abito, una disciplina».

Dunque la chiamata arrivò presto…

«Sì. Arrivò presto. Le ripeto, era una malattia. Come se fossi trasbordato fuori di me per vedere, osservare, spiare…».

Quali padri antichi amò in quegli anni?

«Be’, devo dire che avevo voti scarsi a scuola. E proprio in filosofia! Poi lessi Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione. E fu la svolta. Questo libro lo avevo acquistato in un negozio di musica. Erano anni difficili, la Sicilia era tagliata in due e i tedeschi presidiavano una delle due parti. Allora tutto avveniva in maniera curiosa. I libri arrivavano tramite barche. Come tutte le altre merci. Si vendevano nel punti più impensati. Io acquistai Il mondo come volontà e rappresentazione in un negozio di musica».

Lei ha vissuto tra Lentini e Catania. Eppure i suol pensieri sembrano privi di paesaggio. Dietro i suoi pensieri non s’intravedono né gli agrumeti di Lentini né il barocco catanese…

«Lei ha ragione. Una volta io mi definivo tra me e me siciliano e tedesco, non italiano. Questa assenza di paesaggio di cui lei parla deriva dal mo “decentramento” verso la cultura tedesca. Quando hanno tradotto in tedesco La morte del sole è stato per me come tornare alla mia vera lingua, alla mia patria filosofica…».

Lei ama molto questo suo libro. È giusto che lo ami, è la sua prima creatura… Tuttavia contiene un annuncio di morte. La morte del sole, la morte termica…

«Lo tengo qui. Ogni tanto me lo sfoglio, leggo qualche pagina, controllo se il traduttore ha rispettato le sfumature, le nuance… Ecco nel fare questo, sento di aver percorso il cammino sino al punto di arrivo, che è poi per me il punto di partenza. Cioè penetrare il mondo tedesco, la vera filosofia. La filosofia italiana, soprattutto nel secondo dopoguerra, è stata soffocata da problemi politici, è stata oppressa da visuali sociali, è stata distratta da questioni poco pertinenti con i nodi centrali del filosofare»,

Qualcuno azzarda che se oggi la filosofia venisse spogliata del suo linguaggio cifrato, della sua terminologia, diventerebbe “poesia pensante” o pensiero poetante”. Perché alcune pagine de La morte del sole mi suggeriscono questa citazione? …

«La filosofia deve considerare il problema della forma che deve darsi. Deve far problema della forma. Noi non stiamo assistendo, come sostiene qualcuno, alla fine della filosofia. Stiamo assistendo alla fine di una forma che la filosofia ha. Quando finì la forma che la filosofia scolastica (la filosofia cristiana del Medio Evo) si era data – la forma dei trattati, delle summe – allora spuntò il saggio. Il saggio di Montaigne o di Cartesio. Agile. Leggero. Senza termini impervi. La terminologia scolastica era ormai una forma vuota. Era un tamburo. Una risonanza…»

Quale nuova forma deve darsi la filosofia?

«Il problema della forma non è un problema ornamentale. È essenziale. Noi non abbiamo altro controllo della verità se non quello che esercitiamo sulla espressione che riusciamo a dare al nostro pensiero. La filosofia si dà sulla carta. È triste dirlo. Ma è proprio cosi! Lei dove “vede” la filosofia? La vede sulla carta. Così come un quadro lo vede sulla tela. Quindi se il discorso filosofico riuscirà a conquistare una nuova forma, allora il grande romanzo si quieterà… D’altronde, cos’è stato il grande romanzo? È stato il tentativo di rispondere ai grandi problemi attraverso una forma che non fosse terminologica ma piuttosto espressiva. Questo è vero da Dostoevskij a Proust. Il problema che adesso cl troviamo di fronte è lo stesso di Platone. È quello di far corrispondere il vero al bello…».

Le filosofia non è ricerca, lei scrive. Non è arte. Non è formazione culturale. Allora, la filosofia cos’è?

«Se la filosofia fosse formazione culturale servirebbe ad agghindare un cervello. Ma intenderla così è come farla retrocedere. Il filosofo si occupa della verità. La verità è ineducata. Non educa. Anzi, diseduca. La verità non rispetta nulla e nessuno. Il filosofo è simbolicamente un criminale. Pensi a Socrate. Ma consideri pure il giudizio che esprime la città. Perché dobbiamo nobilitare Socrate e non dobbiamo vedere le ragioni della città? Be’, se noi vediamo Socrate con gli occhi di Atene, allora egli è un criminale, è un sovvertitore, è uno che vuole rovesciare l’assetto della città…».

Passiamo ad altri due temi scottanti. Il tema del rapporto donna/madre e quello della violenza. Perché ha scritto che tra la madre e la prostituta è la prostituta che si afferma? Forse perché la donna oggi si rivela più fedele al ruolo di femmina di quanto lo sia a quello di madre?

«Io risponderei alla domanda partendo dall’idea di figlio. Quella di figlio è una idea portante della nostra civiltà. Ora questa idea è chiaramente in regresso. Il figlio ha una importanza sempre minore. Ecco il perché del mio richiamo alla idea di prostituta. Perché il rapporto madre/figlio sta diminuendo di intensità. Così come diminuisce di intensità il rapporto figlio/genitore. Ma che diminuisca di intensità il rapporto figlio/genitore è normale. Il figlio diventa autonomo, mette su la propria famiglia, ecc. Invece la madre restava legata al figlio. Ma adesso non è più così. Ecco perché dico che la madre si va mutando in prostituta. Vale a dire si trasforma sempre più in donna che offre le proprie prestazioni sessuali».

Questo è dovuto alla crisi delle virtù borghesi? La crisi di quella borghesia che Thomas Mann ha raccontato così intimamente…

«Si. Questo smascheramento della donna si è consumato nel mondo borghese. In fondo, che cos’era si famoso matrimonio borghese? Era un comprare, tutte in una volta e all’ingrosso, le prestazione sessuali della donna. Il bravo borghese faceva un buon affare. Si sposava, comprava tutte in una volta le prestazioni sessuali della moglie, e, al tempo stesso, faceva di suo figlio, mi pare evidente, un figlio di puttana! … Adesso questo paradigma del matrimonio borghese si è approfondito, si è normalizzato o è in via di normalizzazione. Questo significa che sta scomparendo la madre… Chi resta? Resta l’altra…».

“Temere e farsi temere”. È davvero così disperata oggi la umana condizione?

«Io vivo in una zona in cui la casa è trasformata in tana. La casa è una grotta dove uno si rifugia, esce, si affaccia. Io, almeno, la vedo così. Cosa impedisce all’altro di balzarmi addosso a un tratto e di ammazzarmi? Lo sbarramento è talmente lieve… Quanto lieve? Quanto lo sono una serie di norme che si scollano sempre più, che agiscono sempre meno. Il timore dell’altro è un reale impedimento nelle metropoli odierne. Prendiamo le grandi città americane. Lì non si può uscire la notte. Se esci verso sera, senti che muta il rapporto verso l’altro. Un passo alle tue spalle ti fa in qualche modo accapponare la pelle. Anche qui è cosi, se esci dopo mezzanotte, all’una, alle due. Uscire di notte era il piacere di tanti anni fa…».

Era un piacere che rifletteva un costume. Un costume tipicamente spagnolo, da città come Catania, diurnamente arroventata dal sole e dallo scirocco…

«È proprio cosi! Adesso anche qui avvertiamo questo senso di paura. Se senti un passo alle spalle, qualcosa immediatamente s’insinua nella mente. Come se quel passo dovesse avvicinarsi, avvicinarsi, avvicinarsi e tramutarsi in qualche cosa di pericoloso per te… No. Non credo che sia raffrenante una morale del timore. E non credo neppure che sia indegna. Almeno quando si vivono tempi come questi».

«Questo nostro pianeta è il luogo dove ci si incontra solo un momento per dirci addio». Così cantava un poeta indù. Sgalambro, lei condivide la morale di questi versi?

«Io direi che questo nostro pianeta è anche il luogo in cui l’uomo può creare la bellezza. E questo lo penso anche se c’è tanta amarezza nel mondo…».

Nel sancta sanctorum entra a salutare la signora Ersilia. È una donna simpatica e presumibilmente attivissima. Ha cresciuto cinque figli e, al tempo stesso, ha continuato a lavorare come assistente sociale. Le parlo del marito. Esprimo ammirazione anche per la memoria, veramente straordinaria, che lui possiede e che gli permette di spaziare tra una folla di nomi, di date, di citazioni. La signora Ersilia mi ascolta e sorride. «Ciascuno trattiene solo ciò che lo colpisce, ciò che gli piace…» sussurra allusiva.
È una dolce frecciata. Sgalambro incassa e spiega. «È raro che riesca a ricordare le date di nascita dei nostri figli o quella del nostro matrimonio…» (continua)