Excursus

Manlio Sgalambro in La Sicilia, 30 aprile 1988, p. 3

Meditazioni provinciali

«Perché è già notte e i barbari non vengono. / È arrivato qualcuno dai confini / A dire che di barbari non ce ne sono più.»
— Constantinos Kavafis

Non ci sono più barbari
Compito residuo della filosofia è diminuire le tracce di volontà. Se la negazione della volontà si realizza nei rapporti con le cose prima ancora di realizzarsi in se stesso, è che il loro cammino sembra giunto alla fine. Mentre la sterile negazione soggettiva della volontà resta ancora indietro. Nel monotono svolgersi del giorno, nelle occupazioni che fanno correre l’individuo di qua e di là, nei mille luoghi di lavoro, ma anche nell’amore, nell’amicizia oggettivati al massimo, si compie una metodica negazione della volontà a cui la stanchezza di vivere dà il suggello. Ci si abbandona all’altro, al suo tenero abbraccio, come se ci dovesse fare da tomba.

Sintomi
Dove si vedono relazioni reificate – il termine fu già così sintomatico – s’è abbattuta la scure della negazione oggettiva della volontà. La «cosa» non designa il riscattabile esito di un falso divenire, qualcosa da fluidificare nuovamente, ma il divenuto inesorabile nel quale è compresa l’estinzione psichica. Il desiderio di vivere da ebeti. Domina invece ancora la tesi che la cosiddetta cosificazione degli oggetti, nella fattispecie come qualcosa di solido e durevole, sia ubbidienza al postulato pratico che deve così renderle servibili, disponibili alla scienza e alla prassi congiunte. Mentre la filosofia avrebbe, non da ultimo, il compito di fluidificare il cosificato, di scioglierlo. La fluidificazione ricomporrebbe l’immagine di un tutto così com’è richiesto, del resto, da una decente autoconservazione. La volontà che si nega nell’altro da sé, trova, al contrario, nel diventare cosa la pace forzata, la cui ebete quiete, la leibniziana stupidità, le si imprime in faccia. Tutto diventa cosa, quiete derisoria. Essere un ciottolo o un saggio? Siamo già nel dopo-vita.

Insegne
Per quanto riguarda l’individuo, asserire che esso è «bisognoso», sottolinearne la finitezza: tutto ciò detto non in tono sommesso ma con squilli di tromba, fa pensare, ed è vero, che si assista ad un ennesimo trionfo del nostro eroe – l’uomo. Si sente che il bisogno è una vittoria. Un labaro con le insegne della vita ricamate in oro.

Giorno come secolo
Quando la grana degli eventi rispecchiava più da presso l’immutabilità del mondo, il secolo era l’unità di misura dell’esperienza ad esso adeguata. L’esperienza era secolare. Mentre al culmine del tempo si attingevano conoscenza della vita e sazietà. Nella Zivilisation, invece, il giorno diventa estrema misura di vita. Il resto è un sovrappiù. All’interno di esso si colloca adeguatamente l’esperienza. Tutto si svolge nel giorno. Guizzo di luce a cui è legato, esso colpisce per un momento l’oscurità. In questo lampo la scena si illumina a festa e ciò che si vede, si vede per sempre. Nella dimensione del giorno rientrano tutte le misure del tempo. Presente, passato e futuro si stipano nell’ambito del giorno che diventa il paradigma del tempo. Quello che il giorno contiene nella sua smisurata angustia è l’universo intero. Chi ha vissuto un giorno, ha vissuto una vita.

Nostalgia
Difficilmente oggi filosofare è la bella spontaneità di un ingegno compreso tuttavia dalla grandiosità del compito. Difficilmente una filosofia si presenta perfetta come per il soffiatore di vetro una forma cristallina. Finiti sono quei tempi nei quali dalla fiducia che univa inesplicabilmente al mondo nascevano come in un giuoco di ragazzi superbe filosofie. La filosofia universale è oggi l’idiozia universale.

Solo canto di Sirene
Nelle epoche nelle quali è venuta meno la fiducia nella vita si strappano a stento frammenti da ciò che improvvisamente si mostra estraneo e ostilmente mutato s’è il volto di ciò che in epoche vitali sembrò guardare, ammiccante, quello di fanciullo del filosofo. Ma allorché il canto sguaiato della vita attenua i suoi toni si fa sentire il pensiero come uno sciatto canto di Sirene che nemmeno più ammalia ma come una sciocca canzone si scorda un attimo dopo.

Usurpatori
Lo sguardo che sopporta l’intero nell’imperturbabile equilibrio di tutte le parti resta praticamente indeciso. Di fronte alla richiesta di decisione si coglie l’abisso su cui la pratica è disposta a transigere purché si riconosca il suo illimitato potere. Ma pratica significa asservimento del tutto – che pur si dice chiamata ad eliminare – a beneficio di una parte. Al regno, usurpato, dell’uomo.

Di un losco rapporto
Duro e ribaltante è il rapporto con la verità. Esso contrassegna il tradimento che si fa della specie, perpetra anzi il tradimento del genere umano che certamente la verità ha in odio, e difatti lo distrugge. Chi a questa verità deve badare e rischiararne la disgustosa vista o, in altri termini, il filosofo, si fa complice di questa inimicizia e si batte per essa, ardito e forte, senza pietà.

Macchina per conoscere
La complessa macchina della conoscenza non serve che a scongiurare la conoscenza e a renderla inservibile. Questo è il segreto della sua teoria da quando, dai lampi folgoranti della sapienza o da più modeste sentenze, si passò al conoscere organizzato. L’accurata cancellazione che Kant effettua di tutti i «grandi» problemi – denominazione che essi assumono quando ormai sono diventati insignificanti – dal novero della conoscenza, svela l’assillo di una buona organizzazione: l’affermare il primato della non conoscenza, cosa che Kant rivela brutalmente essere la precisa richiesta della conoscenza medesima. La conoscenza organizzata impedisce dunque la conoscenza. I suoi stessi mezzi sono acconci ostacoli. Alla fine la conoscenza organizzata conosce, beata lei, solo se stessa.

Achille e la tartaruga
Per un soffio la filosofia non raggiunge la realtà. Per quel tanto per cui essa non la raggiungerà mai.

Excursus
Quando andiamo pensando appartiene a un topos al quale già appartiene Il mondo come volontà e rappresentazione. La sua imitazione non riguarda l’individualità dell’opera, ma il genere al quale tema come il perduto senso qoheletico e l’evocata immagine dell’estinzione psichica fanno riferimento. L’idea di imitazione si fa strada nella filosofia col declino dell’invenzione. Quest’ultima non viene meno perché all’immaginazione filosofia siano venute meno le forze, ma perché l’idea stessa di forza creativa è caduta in discredito. Nella sua idea è mantenuta la misura che l’originale giustamente non rispettò. Ogni mimesi invece ha il dovere di controllarsi, di impedire l’ignobile intrusione della creatività laddove les jeux sont faits. Il genere non ha oggi possibilità di essere trattato in una sintesi di grande stile. D’altra parte, come trattazione finale di un Dio obtus, l’excursus registra la perdita di empito di ciò che deve soggiornare in un ordine superiore ma del tutto idiota.