Ubaldo Staico in Il Manifesto, 5 aprile 1988, p. 7
Libri
Nei frammenti di Sgalambro, una teologia naturale scritta in forma di «Trattato dell’empietà»
Tommaso d’Aquino definisce l’ira il minore dei vizi capitali poiché, in parte, esso è redento dalla nobiltà del voler fare giustizia. Il Trattato dell’empietà è un libro scritto e dettato dall’ira «su Dio», dove scegliendo una strada teorica indubbiamente paradossale – non la filosofia della religione, non la sociologia, non la teoria politica, bensì, proprio la «teologia» – Sgalambro sostiene che è giunto il momento in cui è possibile farla finita con Dio.
La teologia dell’empietà, composta di 206 aforismi distribuiti in quattro parti, non lascia alcun dubbio sui propri intenti: di Dio si può concepire solo «disprezzo», la nobiltà dell’oggetto della teologia si tramuta in «indegnità». Quello che è forse il massimo problema teologico – il problema del male – viene da Sgalambro, in un certo modo, banalizzato, in quanto il male viene a coincidere con l’oggetto stesso del conoscere, insidiato appena da quella che egli chiama «l’idea bizzarra del bene».
Se il Trattato dell’empietà dovesse intendersi come una presa di posizione teologica o come una voce dell’ateismo contemporaneo, il commento potrebbe anche arrestarsi a questo punto. Si sottolineerebbe, così, l’insolita proposta di una «teologia naturale» che, davvero in un dialogo tra sordi, contesterebbe alla religione e soprattutto alla teologia dei teologi tutti i loro diritti sino all’ultimo: l’idea di Dio come idea somma, respinta, qui, il più in basso possibile, sino a rovesciarsi in odio. Ma si commetterebbe nei confronti di questo libro – come è stato fatto – una somma ingiustizia. E saremmo piuttosto noi a privarci del beneficio insostituibile di un libro «inattuale» come questo.
È, infatti, il libro di un solitario, se mai ce n’è stato, e come ogni solitario Sgalambro ha le sue idiosincrasie. Ben lungi dal cercare amici o alleati, egli sembra fare di tutto per alienarseli. Già entro i ristretti confini della sua «teologia naturale» fa terra bruciata dietro di sé: non molto più che paccottiglia è la teologia dei credenti, sconsiderata è la privatizzazione della religiosità o della fede, niente altro che superstizione è l’idea della morte di Dio, l’ateismo è solo malattia di crescita, infantilismo.
Ma in fondo, come ogni solitario, egli cerca una sua strada e ha solo quella davanti agli occhi; alla fine avrà incontrato tutti noi, ma sarà stato come accidentale – anche se Sgalambro sa e dice che la verità trovata è, necessariamente, per tutti.
In uno stile affascinante per la sua qualità letteraria, il serrato confronto con filosofi e teologi di tutti i tempi si muta molto spesso in irriverenza e l’autore procede, come in un faticoso e ostinato lavoro di scavo, a disegnare i solchi che saranno irrigati da un pensiero tanto inusuale quanto conscio della propria «inattualità»; proponendosi di andare oltre «la forma abitualmente consolatoria della filosofia occidentale». Per far ciò, una identità si stabilisce a fondamento di tutto: Deus sive mundus, ossia Dio è il mondo.
Spinoza, solo nume tutelare del libro, con la sua Ethica more geometrico, aleggia così di continuo e suggella i pensieri di Sgalambro. Come si vede, scrivendo una «teologia naturale» in forma di un «trattato dell’empietà», ciò che risulta dominante e primario non è l’oggetto (affermazione o negazione di Dio), bensì la natura del linguaggio con il quale se ne parla.
Il libro di Sgalambro è, dunque, una organica filosofia panteistica dove le mode filosofiche, come si può immaginare, non fanno sentire se non una flebile eco. La sola posizione sulla quale il Trattato dell’empietà si sofferma a fare i conti, per liquidarla, è la tesi dominante in filosofia circa l’assenza del fondamento.
La pretesa assenza di fondamento equivale all’indesiderabilità emozionale di un fondamento smaccatamente contro-finalistico: qui Sgalambro tocca le corde che fanno risuonare al meglio il suo pensiero. C’è il suo, decisamente inattuale, situare al centro del pensiero la totalità e la funzione cruciale cui assolve in tutta l’opera il desiderio, autentica chiave di volta dell’empietà. Anzi, più che il desiderio, in verità, è la caduta del desiderio a muovere il pensiero di Sgalambro e a fargli diagnosticare la nostra epoca come quella del «pessimismo mondiale». Essa sarebbe, dunque, definibile per il «crollo della volontà di vivere».
«Oggi pessimismo significa nessun rispetto per la vita» – dice Sgalambro, sapendo di giocare con una tra le idee e con parole che gli sono più care, e traccia con pochi segni sua idea dell’umanità di oggi: «L’epoca del grande dolore è finita. La diffusa infelicità è infelicità di riflesso. Rispecchia la felicità che avrebbe potuto essere (…). Manca del tutto il colpo d’occhio per il pessimismo mondiale, sciatto, senza dolore, dove però è venuto meno irrimediabilmente il rispetto per la vita».
Questo è il fondo, abissale, negativo dal quale, risalendo, si giunge sino all’«empietà». Il superamento della posizione «consolatoria» del pensiero occidentale è in realtà trovato. Il necessario odium Dei trascina con sé la perdita di ogni possibilità di consolazione, che sia l’amore oppure l’altro. Resta solo il rifugio, infernale e insieme gioioso, nella mente, il santo solipsismo.
Vittoria della mente, mentre nei fatti trionfa la disperazione con la quale si chiude la solitaria «grandezza di una vita nel pessimismo». In fondo dio è solo il bersaglio trasversale: la realtà che più conta è l’esistenza e alla fine con essa il Trattato dell’empietà fa i conti: «L’ontologica evidenza della rabbia di essere costituisce la base di quell’ira che il furente riversa poi su Dio. Qui si toccano le colonne d’Ercole. Eppure non c’è un pensare decente che non ne discenda».
C’è perciò una duplice lettura possibile dell’opera di Manlio Sgalambro. Lungo il primo dei versanti sul quale corre il pensiero di questi testi straordinariamente densi si è alle prese con l’esatta ricerca del fondamento del discorso filosofico, una ricerca in qualche modo disperata, dove l’esploratore deve aprirsi il cammino, il più delle volte, con fendenti (vittima prediletta Feuerbach ma anche Heidegger e, nonostante la consonanza con l’autore, a volte anche Schopenhauer e Nietzsche; nemmeno Kant e Hegel, nonostante la riverenza d’obbligo, sfuggono alle loro responsabilità e, poiché magis amica veritas, lo stesso Spinoza viene messo a nudo nel suo punto debole): ne risulta una lettura della tradizione filosofica che, per quanto per ‘frammenti’, risulta magistrale.
Su questo stesso versante il problema di Dio – se mai c’è («miserabile fortuna di un termine») – si pone nei modi che, per essere intesi, richiedono come tacito contrappunto i Pensieri di Pascal, unica fonte di dubbio per Sgalambro, che sa di non poter sostenere la propria provocazione filosofica altro che portandola all’estremo. Cosi il suo «non è un ‘libro sull’argomento’ ma – ciò che nel giudizio prevalente è oggetto di derisione – un libro dogmatico».
Se si volesse in qualche modo tradurre nei termini della tradizione teologica l’odium Dei di Sgalambro, lo si potrebbe intendere come lo smantellamento più radicale della quarta via di S. Tommaso (la facile ironia che dicesse che, comunque, di vie per provare l’esistenza di Dio ne resterebbero pur quattro, non coglierebbe nel segno, poiché non è certo che, rovinando una, le altre vie tomistiche continuerebbero a sussistere).
È vero anche che una certa corsa verso la teologia ridiventata di moda oggi potrebbe sponsorizzare questo Trattato dell’empietà; ma anche in tale eventualità il testo di Sgalambro non sarebbe facile da digerire (anche per chi ricorda il devoravit librum dell’Apocalisse).
Sull’altro versante dell’opera si incontra lo sguardo dell’osservatore rivolto al presente: di un osservatore che, per vivere in solitudine, dimostra nondimeno di avere bevuto sino alla feccia il calice della terra. Se si rileva quanta parte abbia nei pensieri di Sgalambro il tema della morte e lo si congiunge con l’assunto del presente decadimento del rispetto della vita, non si esita più a cogliere nel libro uno degli sguardi più lucidi sulla quantità e sulla qualità della violenza cui l’umanità è giunta nel post-moderno ventesimo secolo.
Un altro siciliano come Sgalambro, Luigi Pirandello, parla in una poesia giovanile di un’alba osservata dopo una notte trascorsa nello studio. Essa comunica allo scrittore il sentimento dell’inaudita violenza che subiscono le cose e gli uomini nel risvegliarsi per continuare a esistere e vivere, dopo il sonno della notte. Il libro di Sgalambro ricorda questa «malattia dell’esistenza» (Giudici) di Pirandello: ma, più vicino a noi, fa pensare anche al Salò di Pasolini come pure a qualche film di Fassbinder e a accenni simili presenti nella musica di Stockhausen.