Ora Sgalambro il mondo

Enrico Arosio in L’Espresso, n. 7, 21 febbraio 1988, pp. 141-145

Cultura. Nuovi filosofi

Ha 63 anni, vive a Catania. Nella vita ha fatto di tutto, dal cameriere al possidente di agrumeti. Oggi è uno dei pensatori più originali d’Italia ma anche uno dei più inquietanti. Ecco la vita e le idee di Manlio Sgalambro

Manlio Sgalambro

Manlio Sgalambro è come il suo cognome irto di consonanti: un uomo strambo, un uomo ombroso. Vive a Catania, ma è fuori dal mondo. Fino a pochi anni fa neppure gli addetti ai lavori ne sospettavano l’esistenza. Oggi è un filosofo noto a una piccola cerchia di iniziati: irritante, fascinoso, solitario sino alla superbia. Di sé, lui dice: «Sono un isolano». All’inizio avrebbe voluto essere, dice, «soltanto uno sguardo». Invece ha ceduto alle sirene editoriali. Ha pubblicato il libro libro, La morte del sole (nella collana Saggi di Adelphi) nel 1982, e ora da poco ne è uscito un secondo, Trattato dell’empietà (ancora Adelphi, 176 pagine, 16 mila lire). Suo malgrado, è diventato un uomo pubblico. Almeno sulla carta.
Si, perché Manlio Sgalambro, 63 anni, siciliano, filosofo senza cattedra che qualcuno comincia a ritenere uno dei più importanti pensatori italiani di questi anni, non lo conoscono nemmeno nel suo quartiere, nel malandato, sgretolato centro storico di Catania. Quando uscì il suo primo libro gli “addetti” lo ignorarono. Enrico Filippini parlò di «un libro funerario, intensamente distruttivo»; Enzo Siciliano, educatamente, di «musica sarcastica e agra»; Vittorio Saltini, su L’Espresso, di «masochistica compiacenza» e «disprezzo arrogante e sadico contro il senso comune della vita».
Parole brutali, brutalizzanti. Ma Sgalambro non pretendeva di essere un pensatore comodo. E non ne fa mistero neanche oggi, a cinque anni di distanza. La premessa del Trattato dell’empietà avverte che si tratta di «un libro dogmatico», ovvero «un sistema il quale non ne tollera altri». È un’opera ambiziosa, scritta contro la metafisica, «stravizio di intelletti turpi», e bene addentro, anzi tragicamente addentro, alla finitezza del mondo. Perché il mondo, per Sgalambro, è Dio, ma è anche un immenso serbatoio di male, in un universo che comunque procede verso la distruzione: la morte termica. Il nome di Dio, per lo spirito empio, può indicare solo i limiti negativi del mondo. Se la religione è superflua idolatria, la teologia, in un mondo condannato all’assenza di speranza, «è un obbligo della mente», un’ovvietà. «Noi teologi», scrive il filosofo siciliano, «abbiamo care le abitudini. Già Dio fu una lunga abitudine». Dalla quale sarebbe opportuno, ma vano, liberarsi.

Non c’è dubbio: è un pensiero da scomunica. Con la sua «teologia naturale», Sgalambro intende educare alla diffidenza, al disprezzo primigenio di Dio: «Il disprezzo per l’origine (o il disprezzo di Dio) chiude il circolo dello spirito». Più che aria di Nietzsche, in Sgalambro, tira aria di Adorno, ma in senso stilistico: nella passione, talora manieristica, per una prosa paradossale, acuminata, iniziatica. Le frasi escono dal Trattato come attraenti fulminazioni, come feroci, martellanti aforismi: «Bisogna ridurre l’agire all’essenziale e per il resto lasciarlo ai violenti e ai pazzi».
Sgalambro uomo non è molto diverso da Sgalambro autore. La parlata è scandita, lenta, sospinta da un incessante conato di precisione. Si capisce che per lui filosofare è uno sforzo, non una frivolezza. Questo fragile alieno dal volto affaticato, con le occhiaie di mille letture, è un uomo senza biografia. Ha viaggiato poco, ma legge in cinque o sei lingue. Non frequenta né amici né nemici, tantomeno editori, salotti o circoli. E nessun filosofo, a eccezione di Massimo Cacciari, per telefono o per iscritto. Recentemente Leonardo Sciascia lo ha chiamato per fargli i complimenti. Ha definito il suo libro «vertiginoso».
Ma in realtà Manlio Sgalambro è un falso eremita. Ha una casa non ricca che divide con una moglie e cinque figli. «È una piccola tribù», dice. Sua moglie, che lavora come assistente sociale, è «un’ottima compagna». Ma, aggiunge Sgalambro, «la mia solitudine nasce da problemi che loro non hanno». La famiglia vive anche di una piccola rendita, ma lui, nella vita, ha navigato tra gli espeienti: supplente nei licei, compilatore di tesi di laurea, possidente di agrumeti, in anni lontani persino cameriere.
Nel suo ultimo libro c’è anche una pagina impietosa su se stesso. È un brano intitolato Nota personale. Eccolo:

«Chi accumulò sofferenza nella sua gioventù se ne serve ancora perché essa lo assista. A tanti anni di distanza egli s’è indurito e ha perso la tenerezza che gli restava. Chi accumulò sofferenza accumulò livore. È giusto che ora egli si circondi di dardi di vipera e denti di lupo. E si rifaccia ridare dallo spirito ciò che gli costò…».

Ma che cosa lo ha fatto soffrire cosi tanto? La solitudine, la sua ipersensibilità. Lui, però, non ne vuole parlare: «Odio il topos delle tristi infanzie», dice, citando schegge di ricordi belli. I fiori, gli agrumeti di Lentini, il suo paese tra Catania e Siracusa, il padre farmacista che gli concesse «di svilupparsi lentamente».
Cosa fa Manlio?, chiedevano al paese. Niente. Fino a 22 anni, niente. Letture, smisurate, voraci, disordinate. Un viaggio in Germania, nel 1935, la scoperta fulminante della grande filosofia idealistica tedesca, lo sprofondarsi in un mondo cartaceo, che da Spinoza procedeva attraverso
Kant e Hegel verso Schopenhauer, il suo faro luminoso, poi verso Husserl, Hartmann, Simmel, e decine, centinaia di minori. Iscritto a giurisprudenza a Catania, non si laurea. Diventa adulto tra le righe de Il mondo come volontà e rappresentazione. Si sposerà a 39 anni, dopo una smisurata adolescenza.

Sgalambro, indubitabilmente, vive una missione. «Io devo pensare», dice:

«Devo rispondere, non posso rinviare. La filosofia vive un’epoca di mutazione, come quando apparve il dialogo platonico, che interruppe il filosofare oratorio».

Nel suo nuovo libro c’è una frase perentoria: «La teoria sia l’unica pratica». In un mondo in cui la morte è il male e il bene non può nulla, la morale può al massimo meravigliarsi di «come si possa fare largo il pensiero del bene». L’unica realtà indivisibile, in questa visione, è l’individuo. Con l’altro ha inizio, ecco Schopenhauer, «la zona infruttuosa della rappresentazione». Il raggiungimento del Sé è la vita della mente, la libera, empia autonomia del pensiero.
Superomismo? È probabile, ma all’interno della mente. Nichilismo? Sgalambro lo esclude. «Il nichilismo», dice, «è l’ultima frontiera dell’umanismo perdente. Non è vero che il mondo non ha senso. Il mondo ha troppo senso. Non è per noi». Il mondo è allora una logica implacabile, che dopo la caduta della grande metafisica tedesca, secondo Sgalambro, non è più stato possibile ricondurre a sistema: «Noi non siamo lontani migliaia di anni dalla distruzione come ci dice la fisica. Siamo anzi nella situazione dell’uomo primitivo, che non sa se l’indomani sorge il sole».
Un decadente? Solo un buon scrittore, come ha sostenuto una volta Emanuele Severino? Uno spirito leopardiano, come altri hanno suggerito? Un cattivo maestro? Un uomo pericoloso? Certamente un anti-illuminista, un solipsista. Ne La morte del sole ha scritto: «Non si può essere reazionari, perché non c’è dove tornare; non si può essere progressisti, perché non c’è dove andare». Sgalambro si ritiene libero da impegni civili, e anche dalla pietà. L’umanità, nell’atto del pensare, non lo riguarda. Il teologo, uomo marginale, è dispensato da questi compromessi. «Stiamo vivendo un’epoca di scristianizzazione», sostiene.

«E la pietà è ipocrita, perché nasce anche dal disprezzo».

Insomma, la filosofia, secondo Sgalambro, scaturisce dall’esperienza, dal dolore, dalla bassezza, dallo squallore della realtà. Con Dostoevskij, Proust, Gadda, uno scrittore che ama è Gottfried Benn, il poeta della Morgue, delle carni lacerate, dei cervelli pulsanti sul marmo degli obitori: luoghi che anche lui ha frequentato, a Catania, e su cui ha forgiato la sua etica negativa. «Io ho visto morire quando ancora c’era la cosiddetta agonia», racconta, «non è vero che si muore: si crepa». Partendo da queste convinzioni non può stupire che anche il piacere, per lui, sia raggelato nell’azione della mente. Se gli individui sono separati, scrive, gli «estremi rimedi» sono il coito e la violenza. La ricerca del piacere non è che un’attività tragica e inferiore:

«La concupiscenza della carne è nulla al confronto di quella dello spirito quando questo si inorgoglisce del suo osceno concetto…».

Sì, Manlio Sgalambro vive nella superbia. Ma ancora una volta, nel suo universo, la superbia è la qualità dell’empio, il «supremo godimento» del pensiero che pensa se stesso. In questi tempi frigidi, è un autore che potrebbe infiammare più di un cuore. Ma a lui il destino della propria scrittura importa poco. Gli basterebbe un solo lettore, un fratello, per eccitarlo a pensare a suo modo.