Paolo Miccoli in L’Osservatore Romano, 27 gennaio 1988, p. 3
Il dettato aforistico, quando risulta davvero riuscito (ed è il caso dell’opera di cui qui ci occupiamo), merita un discorso lungo in quanto esige che si evidenzino le radici culturali e la humus psicologica che esplodono in turgide sentenze, ovvero un discorso molto breve che avvalori la parentela della scrittura apoftegmatica che, come il dio della Storia di nicciana memoria, «dice e non dice…».
Manlio Sgalambro è alla sua seconda prova letteraria. A La morte del sole segue, nella provincia della saggistica filosofica, il Trattato dell’empietà, Adelphi 1987. Libro apparentemente freddo, di cinica intelligenza, alle prese col porro unum necessarium della vita stessa del pensiero: Dio.
L’Autore, che si dice esperto (e mostra di esserlo) in filosofia, scienze, matematica, teologia, musica e poesia (§ 78), colpisce subito nel segno: il vero problema della cultura è pensare Dio. È il carattere teologico del sapere la radice essenziale di ogni scienza. L’Occidente deve riprendere coscienza che il problema teologico resta la sua tremenda serietà ancor oggi, tempo di effeminatezze letterarie e di distrazioni idolatriche. L’unica possibilità della gnoseologia è la teologia: l’infinito compito del pensiero si riflette nel suo intrinseco «Oggetto immenso». L’ateismo è semplicemente gesto donchisciottesco, altezzosità scomposta, debolezza dei presunti spiriti forti. Parlando della Vacuità dell’ateismo, l’Autore sentenzia: «Lascia senza regole la mente nei confronti di una Origine senza nome…» (§ 81). Negando Dio, il pensiero si auto-nega. Negando il pensiero autentico, l’uomo parla il linguaggio delle insulsaggini e delle nuances, tanto più orripilanti quanto più ammantate di sentimentalismo e di pia desideria. Dunque: fiducia “maschia” nel pensiero vinizzato dell’uomo.
Col compito di ripresentare la validità “teologica” del pensiero umano l’Autore propone il suo paradosso: l’unico modo di far funzionare oggi il pensiero è quello di sorprenderlo liberamente attestato sul versante dell’empietà e di manifestarne le ragioni. Ecco, in maniera succinta, la prospettiva “folgorante” di Sgalambro: il miglior pensiero della tradizione classica ha “nominato” Dio. Ha fatto atto di coraggio inaudito giacché, per nominarlo, l’ha dovuto positivizzare divinis nominibus quali Origine, Causa, Infinito, ecc. Positivizzando Dio, se n’è resa possibile la “rappresentazione” concettuale, cioè l’idolo mentale.
Il pensiero «alle prese con Dio» è comunque attività teologica. Questa attività comporta, di natura sua, la eliminazione della pietas, della religiositas, della pia credulitas. Suggerisce Sgalambro: si provi a ripercorrere, in maniera sagace, il lavorio speculativo di Cartesio, Spinoza, Kant, Schopenhauer, Goethe, Nietzsche… Ne risulterà l’empietà come segreto movente e risultato lampante del pensiero ardimentoso in quanto tale. Infatti: Cartesio non potrà pensare o studiare il mondo senza (l’idea innata di) Dio, Spinoza e Goethe devono pensare il Dio-Mondo come acosmismo o come panteismo, Kant si aggira codinamente intorno al Noumeno che è modo enigmatico di parlare di Dio, Schopenhaeur pensa la Volontà come divina e Nietzsche si esalta dionisiacamente nella volontà del fanciullino cosmico. In questi pensatori, come anche nei Libertins e nei Deisti, talora l’empietà è fattore psicologico che si esprime in ironia e polemica anticlericale. In tal senso essa è elemento di disturbo e segno di debolezza dello spirito, mal consentendo al rigore stoico e al riso cinico di esprimersi debitamente e con senso di responsabilità. Quanto più gli «spiriti forti» diventano bestemmiatori e aggressivi, tanto più si palesano deboli e poco degni di fede. Convince molto di più la sottigliezza calcolata dei teologi che ragionano «more geometrico» alla maniera di un Suárez o di un Melchior Cano «che sapevano trattare Dio con cupa professionalità» e che Sgalambro sceglie come suoi «invisibili protettori» in questo arrischiato viaggio nel terreno vietato dell’empietà speculativa.
Tale sottigliezza teologica è frutto di prospettiva mondana e di metodologia rigorosamente inferenziale nel dire Dio. Ma, allora, vengono da sé in luce le premesse della tesi centrale dell’Autore: per avere dominio “logico” sull’Origine (insfuggibile modo di pensare Dio), si deve accettare in partenza di restarne dominati (§ 44). Ne risulta che quella che Sgalambro chiama teologia tout court non è altro che la tradizionale teodicea, o teologia razionale, o discorso naturale dell’uomo su Dio. La teodicea è operazione logica consequenziale e rigorosa, come ha insegnato una lunga tradizione che arriva a Wolff: posti i termini o le griglie del sapere categoriale, bisogna sorvegliare le inferenze con necessario procedimento, mettendo a tacere la voce del cuore, o l’esprit de finesse.
Con i suoi dardi ben appuntiti Sgalambro inquieta e irrita; attacca senza avvertire urgenza di difendersi. È troppo sicuro di quel che dice. Intende persuadere il lettore scaltrito (o sprovveduto) che il compito del pensiero teologico dopo Kant, col quale finisce l’avventura della teologia ‘positiva’ (meglio, della filosofia della religione), è quello di sopprimere ogni limite al pensiero per far posto alla empietà, conditio sine qua non dell’odierno pensare (Dio) (§§ 16, 24). L’esercizio più autentico del pensiero si attesta, secondo lui, a diretto e imprescindibile contatto col mondo. Il mondo è segno ed enigma: allude e rinvia.
Un discepolo di Spinoza o di Rensi potrebbe sostenere intrepido e, magari, assentire al discorso asciutto, provocatorio e tetragono di Sgalambro. In realtà, se si intende pensare Dio unicamente nella modalità dell’Origine, del «grande Architetto dell’universo», i giochi teologici del mondo sono fatti e la mente umana può anche ‘empiamente’ (alias spregiudicatamente) divertirsi a smontare o a incastrare bambole russe.
Il problema vero comincia – ci sembra – proprio là dove vuole finire il discorso di Sgalambro che avrebbe fatto bene a menzionare Pascal, di cui può dirsi, per molti versi, discepolo inconfessato. L’autore delle Pensée è un profondo pensatore dell’ordine degli spiriti e dell’ordine della carità, oltreché dell’ordine dei corpi su cui indugia Cartesio (discipulo Sgalambro). La collera di Pascal si è scaricata sulla testa del suo connazionale, indagatore ‘empio’ del mondo (ma più propriamente di Dio), il cui mistero di luci e ombre esige che si pensi il ‘Mistero’ non solo, né primariamente, discorrendo more logico et geometrico, ma anzitutto amando e pregando. Sgalambro si fa beffe dell’ateismo e invoglia all’empietà teoretica. In realtà, la spia del tarlo roditore che gli mugugna dentro è offerta da due aforismi di carattere autobiografico (77 e 78), dove si parla di ateismo giovanile che in lui prese piede nell’adolescenza leggendo Cartesio e Spinoza. In seguito, «nella cattiva sorte che gli ampliò la coscienza e nelle acute ferite che gli inflisse, mai lo (Dio) dimenticò…».
Il rispetto della persona ci vieta di indugiare sul versante della confessione autobiografica dell’ateo. Ma troviamo sintomatico ed eloquente l’inquietante limite di un discorso apparentemente sorvegliato ma profondamente passionale nell’affermazione che fa l’Autore quando dice che l’ateo non ha motivo di indignarsi, mentre l’empio ne ha fin troppi… Di quale tipo di ateismo si tratta? La risposta a questo interrogativo dovrebbe essere motivo di severo esame di coscienza anche per l’Autore di questo ‘scandaloso’ Trattato dell’empietà.
Dopo Nietzsche, Marx e Freud «morto è il desiderio di Dio, resta Dio» (§ 88). Potrebbe essere anche vero. Resta pur sempre da aggiungere: si tratta di un Dio necessario per pensare, non di un Dio da adorare o da amare filialmente, a parere dell’Autore. L’appello all’empietà ci pare espediente provincialistico. Il teologo cristiano, tutt’altro che spregiatore della fides quærens intellectum, non fa fatica a lasciar sgretolare il simulacro di empietà del suo discorso professionale con la testimonianza della vita: egli pensa e parla teologicamente perché crede, adora e ama il Dio di Gesù Cristo.
Peccato che proprio questo teologo, meglio identificato, sfugga alla mira di un pensatore esigente.