Per il nulla? In fondo a destra

Renato Minore in Il Messaggero, 5 gennaio 1988, p. 14

Incontri / Manlio Sgalambro parla del suo secondo libro. L’isolamento culturale, il filosofo oggi, i figli-spermatozoi

Catania – A distanza di quasi cinque anni, eccomi di nuovo nello studio di Manlio Sgalambro. I libri ci sovrastano dalle alte pareti. i rumori della piazza catanese filtrano nella stanza. Tutto uguale? Apparentemente sì. Lui risponde con gli stessi modi, la stessa perentorietà, lo stesso fervore nichilistico. Non saprei in altra maniera descrivere la freddezza appassionata che lo anima quando parla di Kant e della melodia della sua scienza della logica «tutta dirupata, tutta piena di sassi». Uguale anche il rituale dell’incontro-intervista in occasione dell’uscita del secondo libro, sempre da Adelphi, Trattato dell’empietà.
Per il primo, La morte del sole, si parlò di un autentico caso filosofico, di un filosofo cioè non professionista che irrompe sulla scena culturale. Ci fu un po’ di chiasso nel lancio, qualche recensione. Non moltissime. Che farsene di un filosofo scomodo e irritante per cui la «verità è un muto cenno che viene rivolto alla vittima designata» e «l’idea eterna dell’uomo c il suo cadavere»? In tempi di edonismo, di intellettuali rampanti e yuppies, che farsene di una voce monotonamente accentrata intorno ai temi della disperazione umana, della finitezza, della morte di ogni speranza? «Sì – conferma Sgalambro – soltanto Cacciari mi segue un po’. Severino ha dichiarato che sono soltanto un buon scrittore. Poi si è scusato dicendo che le sue parole erano state riportate male. Promise una recensione. L’aspetto ancora».
Quasi duecento pagine «per osservare freddamente Dio», per guardare (recuperando grandi teologi dimenticati come Suárez e Melchor Cano) quella «persistenza del mondo» che è Dio. il suo inerte ripetersi, la sua alterità nemica… Anche chi non è lettore di professione rispetto a questi temi, è colpito dalla forma scelta, pensieri ora diluiti ora fulminanti come veri aforismi, dallo stile aguzzo, estremamente sorvegliato. Sgalambro stesso conferma che l’introduzione (quattro pagine scarse) gli è costata sei mesi di lavoro: «La crisi della filosofia è la crisi di una forma, si passa dalla summa al saggio. Il problema dello scrivere si avverte di più, va insieme a quello che uno deve fare. a quei pensiero che deve svolgere. Pensi alla Cognizione del dolore di Gadda. Il contenuto è di una solenne banalità (la vita è sofferenza). Ma è necessario che questo intrigo di cose venga fatto risentire all’interlocuzione di oggi, ricapire».

Dire Gadda significa dire la grande letteratura del Novecento. Un filosofo si nutre di essa?

«Non ho fatto mai distinzione tra te due cose. Io ho praticato le due forme contemporancamente. Non dico che sono stato lettore perché dire lettore oggi è dire nulla».

A dire il vero oggi si parla di indici di lettura più elevati, di italiani che leggono di più. Allora è cambiato il modo di leggere?

«Esattamente. Oggi il lettore è colui che sfoglia, guarda e butta. La lettura non è ascolto del libro, l’entrare in esso lento, muto. C’è ancora oggi un lettore adatto a poter leggere Proust? La mia generazione poté leggerlo perché leggeva in altra maniera, non era assediata da una notevole quantità di libri. O forse perché viveva in provincia».

Ma il suo lettore come se lo immagina? Il libro entra in un circuito, cerca lettori…

«Certo io desidero che si venda, altrimenti l’editore non me ne stampa più. L’interlocutore? È spesso come nei nostri paesi i cacciatori di dote: c’è chi possiede qualche idea e un nugolo di cacciatori va dietro. Io credo che l’unico rapporto con un sistema di idee sia mistico: sprofondare in esse. Ciò che rimane è ciò che vivrà e varrà».

A proposito di futuro. Come lo vede? È ottimista o pessimista?

«Bisognerebbe sfruttare una frase malfamata: se qualcuno mi parla di futuro, tiro fuori la pistola. Il futuro è una specie di tradimento che si compie. Noi siamo qui noi siamo vivi. Il futuro è gli altri. Esso è succube di una nozione di continuità del tempo. Ma basta innestare una condizione di discontinuità e allora siamo tutti simultanei…».

Ma non abbiamo nulla da dire agli altri, nessun messaggio da consegnare?

«Il nesso tra noi e gli altri (il futuro) si sta indebolendo. Ci avviamo verso un’altra era, non sarà più l’idea di pietà a dominare. Se non c’è pietà, perché si dovrebbe lavorare per il futuro per cui finora ha lavorato il padre travestito da figlio? Quando si vede la fotografia dei figli sul tavolo, viene la buffa idea che siano spermatozoi coltivati… Oggi siamo già nella fase della scristianizzazione, cioè dell’abolizione del concetto di prossimità. Al filosofo tocca questo molesto e delittuoso compito di additare questo percorso».

Mentre parliamo, di tanto in tanto, si affaccia un viso giovane. Sono cinque figli, disseminati tra i 14 e i 22 anni.

«Ho buonissimi rapporti con loro, non li disturbo, non mi disturbano. In qualche modo amano che io esista».

Per necessità familiare Sgalambro continua a compilare tesi, l’ultima è sulle fobie dei bambini. Per il resto, oltre allo stipendio della moglie assistente sociale, c’è quel che resta dei suoi agrumeti che ha venduto: «Il denaro dà l’impressione di non aver nulla». Confessa di leggere poco, ad una certa età (ha 63 anni), si passa tanto tempo tappato nello studio «a riflettere e a rivedere».

Ma in una cultura in cui tutto è finalizzato, la cattedra, l’elzeviro, l’intervista tv, non si sente a disagio?

«Una cosa posso dirle: sarei molto imbarazzato, impreparato ad un altro tipo di vita».

Per la seconda volta, dopo cinque anni, percepisco la minerale solitudine e distanza che fanno di Sgalambro un personaggio insolito, enigmatico, inquietante.