Tino Vittorio in La Sicilia, 10 dicembre 1987, p. 3
Il filosofo catanese Manlio Sgalambro parla del suo inquietante libro Trattato dell’empietà
«Si è agito troppo e pensato poco»
La filosofia non dia conforto, né insegni tecniche acrobatiche per sfuggire alle trappole della vita, né spieghi alla mosca come uscire dalla bottiglia. La filosofia è scienza di Dio. Dio è il mondo, il mondo è una schifezza. Freddezza analitica, diffidenza intellettuale, osanna alla mente e superbia: così si sta al mondo, tenebrosi e narcisi. Ecco l’empio Sgalambro, colto in pieno narcisismo. Sta leggendo, mentre ci accoglie nel suo studiolo di piazza Vittorio Emanuele a Catania, Krüger, Perché Pechino, dell’Einaudi. Chi è Krüger? «È il direttore editoriale dell’Hanser di Monaco che sta per pubblicare la traduzione della mia La morte del sole. Voglio sapere a chi mi sto consegnando. È uno scrittore niente male».
Cosa farebbe leggere ad un giovane in formazione?
«Ad un giovane, al barbiere, al più sprovveduto darei da leggere Schopenhauer. L’ho letto nel 1943, scovandone una copia nel negozio di cose musicali, Riva, di piazza Stesicoro. I libri nell’immediato dopoguerra a Catania arrivavano dal mare in barca e uno strano e benemerito libraio li accatastava tra i dischi».
Com’era Catania nel dopoguerra?
«Grigia e… quel puzzo di piscio di cui olezzava secondo quanto ha scritto il mio compaesano Addamo proveniva tutto da via Coppola dove stavamo in pensione».
E oggi Catania come le sembra?
«Ha quel che si merita».
Parliamo del suo ultimo libro, Trattato dell’empietà. Sembra un diario, dal sapore aspro e paradossale, ma saggio, molto saggio, di un adolescente un po’ narcisista e che ha Dio in gran dispitto. Eppure lei ha 63 anni belli, ben portati, argentatissimi, ed è padre di cinque figli. Da dove spuntano queste frizzantissime considerazioni, queste empie adolescenziali riflessioni su Dio?
«Sono, io, come una stella morta che irradia ancora luce residuale. Mi sento nella strana condizione di realizzare “programmi” di lavoro che rimontano nelle loro basi a tantissimi anni fa. L’amore per la manualistica teologica sboccia nel 1956 – che è un anno privato – (non ha nulla a che spartire con la destalinizzazione, con il rapporto Khruščëv), quando a Roma setacciai le biblioteche vaticane. In provincia, a Lentini o a Catania, il problema religioso è l’approccio più immediato per svolgimenti imprevisti verso approdi imprevedibili come l’archeologia e l’architettura o il marxismo, che è il sacrificio consapevole dell’intelletto, o altro. La provincia consente di ignorare tante cose e di scoprirle come se fossero attualissime. Uscivo, inoltre,
dalla lettura insoddisfacente della sinistra hegeliana».
Ma lei da piccolo cosa faceva?
«Dio, che domanda! Non ricordo, ho dimenticato tutto. Da piccolo facevo il piccolo. Dostoevskij, Victor Hugo, I Buddenbrook. La biblioteca di mio padre farmacista, antifascista, anzi, socialista a Lentini. Bersagliato dai fascisti, le discussioni a casa. Assunsi da quelle discussioni l’abitudine ad esaminare i fatti, a riflettere sentendo le ragioni degli uni e degli altri. Io ero poi, sensibilissimo, impressionabile. Mi immalinconivo per la vista di un gattaccio randagio. La fase riflessiva è nata come catarsi come sedazione dell’ipersensibilità. Più in là sono vissuto come un giglio, un piccolo reddito da agrumeti nel Lentinese».
Professore Sgalambro non le piace insegnare?
«Non sono un professore, né laureato in alcunché. Ho smesso gli studi universitari dopo una temibile malattia che mi relegò per molto tempo a letto. Sono stato iscritto a Giurisprudenza per intraprendere la carriera diplomatica, pensando di mettere a frutto l’amicizia, i buoni rapporti di famiglia con Buffarini Guidi, il sottosegretario agli Interni del fascismo, fucilato a Milano, alla caduta della Repubblica di Salò. Quanto ad insegnare non saprei cosa dire. I maestri ammaestrano, indicano la strada, additano la via. Io mi sento, invece, in grado, ho la vocazione di sviare, traviare i giovani, fare perdere loro la strada maestra. Ed infine ritengo che l’insegnamento non è un processo da pari a pari dove discente e docente si scambiano reciprocamente i ruoli».
Ma la nostra Università potrebbe essere onorata dalla sua presenza. Di certo ne guadagnerebbero gli studenti in mano a docenti che, a parte qualche lodevolissima eccezione, si sono formati sulla Metafisica dell’Essere Parziale.
«Questa Università babbea risponde a bisogni di alfabetizzazione di massa e svolge, per questo, una funzione di dirozzamento super-liceale che non mi sembra da sottovalutare. Ciononostante o grazie a ciò, non mi tirerei indietro – pur con le riserve di cui le ho detto – se mi si proponesse di fare qualcosa. Parlandone qualche anno fa con il mio amico Massimo Cacciari, dissi che ero disponibile anche per un posto di portiere, alla portineria. Come vede non sto né in porta né all’attacco e nemmeno in panchina. Ma Cacciari voleva darmi di più».
Ma forse una politica…
«La politica è la metafisica della canaglie».
Se i politici sono canaglie in metafisica come i gatti in amore, cosa mai sarà la mafia?
«Personalmente non sono mafioso, né anti-mafioso. Per il resto lascio fare a Sciascia che ne sa molto di più. Ho raggiunto non dico la perfezione, ma un altissimo tasso di cinismo, magari dorato, teorico per cui indignazione non mi appartiene. Sono debitore a Schopenhauer e ad Hegel che mi hanno insegnato a non indignarsi e a non indurmi stimoli modificativi. E non
perché io voglia conservare l’esistente. Penso, solo, fino ad oggi si è agito più di quanto non si sia pensato. Pigli il cristianesimo. Noi siamo ancora cristiani. Crediamo nel prossimo, nella pietà. Senza averli pensati. Un nuovo rapporto col prossimo può sorgere ripensandolo il prossimo che, francamente, ai giorni nostri fa schifo».
Il prossimo è anche il corpo, il proprio corpo. C’è la possibilità di recuperare, nell’eventuale rifondazione di un cosmo ordinato dalla mente, un rapporto con il piacere fisico che non faccia schifo?
«Il corpo è stato, in un ipotetico piano cosmico, previsto, la mente no. Il corpo è scontato. La mente è l’elemento imprevedibile ed imprevisto, come se non facesse parte del piano».
L’intervista è finita. L’impressione è quella di avere parlato con uno straordinario ragazzo di 63 anni. Altro che empietà.