Manlio Sgalambro in La Sicilia, 3 luglio 1983, p. 3
Di Kafka non si dovrebbe parlare. La sua opera attende ancora che sia rispettato il divieto che ne emana ma che non viene eseguito. Essa invece è preda degli interpreti, in proporzione al suo enigma. Là dove richiederebbe una critica apofatica che dicesse solo ciò che non è. Leggere fissando con occhi sbarrati le righe e ammutolire: così si dovrebbe leggere. «Io non lo leggo per leggere, bensì per riposare al suo cospetto», dice Kafka di Strindberg. Che confidente abbandono! Ma questa intimità non è permessa con Kafka. Qualcosa ammonisce non tentarlo nemmeno. Distillarne pensieri, strappargli filosofemi, cozza contro la stessa morbidezza del testo che non lo concede per troppo concederlo. In Kafka non si cerchi un pensiero, ma la stessa realtà è già troppo. «lo percepisco le cose in rappresentazioni così labili – si legge in Descrizione di una lotta da credere che esse siano un tempo esistite e che ora precipitino». Ma lo stadio di disfacimento dà come un impulso alla conoscenza. Lo stato di sfacelo delle cose lascia intravedere l’ente in sé, che la loro buona salute occultava.
Per gli amatori di pensieri, la scialba raccolta di Aforismi ne dice la misura. Qui stesso si parla del male in contrasto col grandioso concetto che invece v’è nella sua opera. « Il male – si dice – è una emanazione della coscienza umana… Non tanto il mondo sensibile è parvenza, bensì ciò che vi è in esso di male». Il male sarebbe dunque la causa, tutta umana, della parvenza del mondo. Ciò urta contro il senso della sua opera secondo cui il male è al di là dell’umano. Tenersi stretti ad essa protegge dallo stesso Kafka. Se l’opera di Kafka accenna a un ordine teologico, questo è però privato dal requisito essenziale che lo vuole legato al bene. Solo per un soffio esso non è la forza malvagia stessa. Il ruolo della teologia, da quando ne venne meno l’oggetto canonico, è stato ferreamente stabilito dal suo erede umanistico. Essa deve rafforzare l’egemonia dell’uomo. La teologia, dice la nota tesi di Feuerbach, si risolve nell’antropologia. L’Essenza del cristianesimo è una volgarizzazione della dialettica trascendentale; un compendio pour la canaille. La conclusione che dio è «nient’altro che l’essenza umana» (un concentrato dell’uomo com’è visto dall’umanismo; una melassa dei sentimenti e delle buone qualità della specie) non dissolve soltanto dio nella sua presunta genesi antropologica, ma denuncia come antropologia delle peggiori la stessa tesi. Fenomeni come l’ira dei, il tremendum, la majestas richiamano invece il cosmo dimenticato. Lo sguardo stupefatto di chi se 1’era bevuta scopre la brutta massa di un mondo che sputtana i gemiti della creatura. Il sentimento di dipendenza è il sentimento di essere maciullati. L’essere umano scompare in una nuvola rosa. Per Kafka non ci sono che insetti e il sogno da cui Gregor Samsa si sveglia è quello di essere un uomo. I due grassi messeri che tra mille contorcimenti ammazzano Joseph K «come un cane» rappresentano un dio quale ormai può essere visto da un insetto. Nondimeno l’assassinio, la cui traccia metafisica già Poe seguì con tenacia, rappresenta, nella sua chiave ultra-segreta, il modo come tutti moriamo. Il fatto che Poe dia un nome agli assassini e alle vittime non è che un tributo pagato al progetto letterario in cui è invischiato. Max Bense ha scoperto che l’assassinio in Eureka è già contenuto in quello che egli chiama il «principio ontologico»: «Nell’unità originaria della cosa prima, sta la matrice di tutte le cose e vi è contenuta la predisposizione al loro inevitabile annientamento». In ciò il segreto della morte è svelato in collegamento al delitto: tutti moriamo assassinati. La cosmologia di Poe è un presentimento della «teologia» di Kafka. Questo ha voluto dirci anche Kafka: tutti moriamo assassinati. Il resto non ha importanza.
Non solo il disinteresse, come requisito dell’arte, è inadeguato all’opera kafkiana, ma essa va contro l’interesse che si vorrebbe dominante nell’arte contemporanea. Chi vi si accosta subisce il danno che in un superiore ordine gli è inflitto. Ma esso è infame. Tutto è avverso a colui che vuol vivere. L’opera di Kafka piace contro ogni piacere. Perciò essa è bella. Bello in Kafka non è ciò che è ma ciò che avrebbe potuto essere.