Scelta di filosofo: Adorno spera, io no

Giuseppe Servello in Giornale di Sicilia, 16 maggio 1982, p. 3

Dialogo con Manlio Sgalambro, un «caso» che esplode

A 58 anni questo «freelance» siciliano ha pubblicato il suo primo libro. Emarginato per scelta e scrittore per vocazione

Catania – Di media statura, magro come una statua di Giacometti, l’ultima scoperta della «Sicilia che vale» si chiama Manlio Sgalambro. La penultima, Gesualdo Bufalino, appartiene alla categoria dei letterati; questa attuale è da catalogare fra i filosofi. Ma Sgalambro è insieme un pensatore-scrittore, ha un taglio che si direbbe di uno che articola concetti e riflessioni con la scorrevolezza del narratore.
È nato a Lentini nel 1924. La morte del sole è il suo primo libro. Così appare nel risvolto di copertina dell’opera pubblicata da Adelphi (pagine 230, lire 12.000) e la secca presentazione ha tutta l’aria di essere stata dettata dall’autore. Il quale risulta disponibile ad ogni domanda, ma accenna appena i fatti autobiografici. Vive a Catania dal 1947 in un ottocentesco palazzo del centro cittadino. Dallo studio che dà su una piazza si sentono i rumori delle macchine, le voci dei passanti ma Sgalambro non sembra provare fastidio. È un piccolo possidente di terre d’agrumi, non ha mai avuto interesse a prendersi una laurea in filosofia. Tuttavia ha pubblicato il suo primo libro dopo un quarantennio di letture, appunti e meditazioni. Un giorno si è deciso a fare ordine tra le sue carte, le ha mandate a un editore e già i primi tocchi di gong cominciano a sentirsi. Chi ne ha parlato, lo ha fatto in modo clamoroso, come di una scoperta.

Nel suo libro lei dice che, brutte e informi, le filosofie odierne conducono una vita strumentale. In che senso?

«In quanto sono, ad esempio, le notorie filosofie della prassi, quelle che devono trasformare il mondo. La polemica non è certamente solo contro un tipo di pensiero che si richiamò gloriosamente al marxismo, ma oggi un po’ tutte queste filosofie hanno l’intento trasformativo, vogliono cambiare la realtà. Al filosofo, invece, compete anzitutto conoscere, contemplare».

Ne La morte del sole lei ha annotato che l’intelligenza non ha nulla da dire di nuovo; ha solo da far valere quel nulla rispetto al sentimento e alla volontà antagonisti.

«Ecco, qui in sostanza io ritengo di aver tirato una lancia in favore di quello che spesso si frusta come intellettualismo, come se l’intelletto non fosse la professione dell’uomo. Certamente l’intelletto non ha da far valere qualcosa di nuovo: ha da realizzare se stesso, altrimenti l’uomo ha sbagliato completamente professione. L’intelligenza deve essere un punto fondamentale».

Dall’insieme del suo libro si ricava che lei non tenta di arrivare ad un metodo, ma di riflettere su quelli che sono stati i sistemi.

«Sì, per un certo verso. Si è parlato tanto contro il sistema e si è inneggiato alla liberazione dal sistema. Io in verità devo dire che da questo punto di vista sono un nostalgico. Nei grandi sistemi della filosofia, per esempio l’idealismo classico tedesco, Hegel, Schopenhauer, Schelling, c’è qualcosa che inebria. È solo la nostra impotenza e anche l’impotenza storica di un’epoca che non sa creare sistemi, che appunto ci fa disprezzare il sistema. In ogni filosofo non dico che ci sia nostalgia, ma esiste un certo tendere a questa visione complessiva. D’altra parte, cosa ha di mutilante una visione complessiva? Le filosofie rinunciatarie puntano su una scommessa: dire qualcosa di preciso. Infatti in una pagina del mio libro io dico che il filosofo è il maestro della risposta, non è il maestro del problema. Che poi sia giusta o sbagliata questa è un’altra cosa; che venga un altro a confutarla fa parte della meccanica del gioco. Comunque, bisogna impegnarsi in una risposta».

Lei sostiene che il pensiero va contemplato, non letto. Solo così esso ci elegge.

«Lo affermo nel senso che mi rivolgo contro chi sorvola il testo per un’immediata interpretazione, che non si sofferma, non si abbandona alla pagina».

Se fosse invitato a tenere dei corsi scolastici con libera scelta di tema, che cosa preferirebbe?

«Non mi so immaginare a tenere lezioni e la domanda mi trova sprovveduto di risposta. Facendo un passo più in là, direi di poter trattare il problema della fine del mondo, visto che uno dei problemi classici della filosofia è quello dell’origine. Per fine non intendo quella apocalittica, ma quella come la scienza ci insegna: il sistema solare finirà, anche se in uno spazio di miliardi di anni. Ecco, nell’anticipazione del pensiero mi suggestiona pensarmi a contatto di questa fine del mondo».

Nei siciliani il pensiero della morte è una costante, mentre nelle altre regioni ha altri tagli, una prospettiva diversa. Perché?

«Forse per la nostra provincialità. Il siciliano è più appartato. mentre nelle metropoli direi che si pensa alla morte solo quando è avvenuta, sotto forma di necrologio. Dipende dal fatto che l’isolamento ci spinge a questa continua riflessione, ci lega di più all’idea della fine».

Dei pensatori contemporanei, quale sente più affine o vicino?

«Certamente Adorno. Con una differenza: che lui spera e io no. In Adorno vive questo senso del pensiero, il quale invece è quasi cancellato nella gran massa dei filosofi d’oggi, intricati in problemi politici. Adorno, specialmente in Minima moralia, ad un certo momento si è liberato e gettato a fondare la speranza in un tipo di società migliore. lo invece dico peggioге».

E fra i pensatori italiani?

«Gli italiani sono poco appariscenti. Per dimostrarlo dovrei fare un discorso molto ampio. In sintesi, credo di poter dire questo: che la nostra società è sempre stata impegnata da un punto di vista ideologico, fortemente impegnata. In questa lotta si è dissanguata, indebolita. Non si nota un tipo di lavoro individuale che non sia specialistico, storico. E quindi bisogna aspettare che queste lacerazioni ideologiche siano finite, come pare stia avvenendo. Solo così la filosofia italiana può tornare al pensiero tout court. L’impegno civile e sociale a stato eccessivo e non mi ha mai convinto. Io mi sento un incivile, un solitario. Per questo credo che il filosofo debba appartarsi».

Una sua frase recita: «La donna è una rappresentazione dell’uomo: essa è il peccato originario del pensiero». In che senso?

«L’espressione mia è così stretta all’idea che con saprei dire diversamente. Potrei cavarmela, o forse voglio proprio cavarmela, con un aneddoto. Hegel viene richiesto da una dama di spiegare un punto della sua logica. “Proprio quello che ho detto”, risponde Hegel, e non spiega».

Dopo questo primo libro, ha qualcosa in cantiere?

«Molto probabilmente ne pubblicherò un secondo entro l’anno. Con sviluppi che certo non si possono condensare in poche battute».

Un’ultima domanda. E questa dovrebbe rivolgerla lei a se stesso, su una cosa alla quale tiene di più…

«Vorrei sapere perché lei si a mosso per intervistare un filosofo. Sono curioso di saperlo».

Qui potrebbe valere l’aneddoto di Hegel, lasciando la domanda senza risposta. Ma sarebbe una battuta fuori testo, senza logica, di fronte ad un motore di pensiero che all’improvviso è venuto fuori da quella che ingiustamente si cataloga come provincia addormentata.

«La ringrazio, anche se resto dalla parte del pensiero solitario. Il mio libro sarà letto o no, si venderà o meno. Ma le confesso che mi importa poco».