Roselina Salemi in Il Mattino, 8 novembre 1982, p. 3
Personaggi / Manlio Sgalambro solitario profeta del nulla
Come un libro «cattivo per scelta» ha trasformato un filosofo di provincia in un «maître à penser maledetto»
Un profeta della Catastrofe. Un filosofo del nulla impastato di polvere e di morte, che amministra il sorriso con molta parsimonia. Barricato dietro gli occhiali fumé, dietro i libri del suo studio catanese, dietro mille filtri intellettuali, Manlio Sgalambro posa senza volerlo da maitre à penser con la faccia scarna e aristocratica che evita la luce, le dita sottili che sfogliano uno Schopenhauer rilegato in blu e oro, lo sguardo quieto di chi sa leggere anche le parole scritte sull’acqua. Forse per questo il successo non lo scuote.
La morte del sole, il libro «cattivo» per scelta, pubblicato da Adelphi alle soglie dell’estate, ha stupito gli accademici e punzecchiato gli intellettuali: si poteva dirne bene o male, ma non fare finta di niente. Così ne hanno parlato quasi tutti, e non solo perché ha sfiorato il «Viareggio». Ma soprattutto per il dono sottilmente provocatorio di questo filosofo «maledetto» e sconosciuto che arriva dal fondo della Sicilia. Un esordiente di 58 anni. «Ma in filosofia – dice Sgalambro – si dovrebbe pubblicare solo a una certa età. Così almeno non si corre il rischio di ripensarci».
A sentirlo parlare sembra che di aver fatto uscire La morte del sole sia quasi pentito. «In un certo senso è vero. A me sembrava più coerente tenerlo nel cassetto. Oramai mi ero abituato a stare nell’ombra, ad annullarmi, a provare il piacere di osservare senza essere visto. Ma poi c’è la famiglia, ci sono gli amici. Quante volte mi hanno detto che non potevo continuare a vivere così isolato con i miei pensieri, quante volle ho dovuto subire nelle mie carni questo discorso. Ho scritto il libro nel ’76; l’ho pubblicato quest’anno. E prima? Lo immagina, lei, il mio prima? Un uomo che in qualche modo deve render conto di questo suo sterile avere a che fare con i libri: così ho mandato il dattiloscritto alla Adelphi». Ed è arrivato il successo. Sono arrivati consensi: da Alberoni, da Quinzio, da Filippini.
«Non me l’aspettavo. E non saprei dire quanta parte di equivoco ci sia. È sempre un libro di filosofia, non un romanzo. Il titolo, sì, era invitante: forse lo hanno scambiato per un racconto di fantascienza».
Ironizza volentieri su se stesso e sullo status di filosofo che adesso nessuno gli contesta. E non gli va di essere chiamato professore. «Ma che professore, non sono nemmeno laureato. In filosofia poi, non mi sono neanche iscritto, ma fin da ragazzo ho coltivato questa mia “passione” provinciale che, a parte la famiglia e i figli, è la cosa più importante della mia esistenza. E per vivere? Aiutavo gli studenti nelle tesi di laurea, un lavoro come un altro. Poi c’erano qualche supplenza e il reddito di un piccolo agrumeto a Lentini dove sono nato…».
Ogni tanto Sgalambro si interrompe. Oltre la porta dello studiolo, isola silenziosa di libri, si sentono i rumori della casa: mani che bussano, voci di ragazzini, spintoni e risate, qualcuno che gira piano la maniglia e mette un occhio curioso nella fessura. Ma lui è abituato alle incursioni allegre dei cinque figli tra i volumi di Kant, Heidegger e Husserl. Gli ricordano gli anni lontani della guerra, del fascismo, l’amicizia con lo scrittore Sebastiano Addamo: «Facevamo il liceo assieme a Catania; discutevamo per ore; sognavamo di pubblicare una rivista tutta nostra, l’avevamo persino designata. Poi abbiamo collaborato a Incidenze, un periodico che apriva il dialogo tra marxisti e cattolici. Io alla fine mi sono lasciato alle spalle il marxismo e ho cominciato a scrivere su Tempo Presente di Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone». Per il resto silenzio assoluto fino a La morte del sole, 198 capitoletti di lucida coscienza della fine. «Sì, un libro provocatorio, dove al “grande meriggio” di Schopenhauer e Nietzsche, al mito del sole si sostituisce l’immagine della morte termica. La termodinamica, spietata erede dei problemi della “salvezza”, non lascia scampo come tutta la nostra civiltà non ha scampo. L’autentico sentimento scientifico di fronte all’universo è l’impotenza. “Sapere è potere” non l’ha detto uno scienziato, ma certo qualche cattivo filosofo. Cosa ci resta? Niente altro che fare l’inventario di queste antiche reliquie, i reperti del passato filosofico. E avere il coraggio di guardare negli occhi la incertezza e il terrore».
Il terrore è uno dei temi preferiti di Sgalambro. Per lui rappresenta «il volto nascosto di una civiltà divorata pezzo per pezzo, che maschera dietro un minuetto la paura della agonia. E questa la autentica realtà. Se lei ora prendesse un coltello e si avventasse su di me vedrebbe la mia vera faccia, quella sbiancata dalla paura. Emergerebbe lo strato più reale di quello che sta accadendo ora. Non la conversazione in cui fingo di dire cose interessanti, ma il momento in cui verrebbero alla luce i miei sentimenti più veri, non addomesticati dalle finzioni».
Si alza per chiudere il balconcino ai rumori della piazza. Ma i fantasmi sonori di clacson, freni, liti e risate arrivano lo stesso fino al tavolo ingombro di libri. «Il rumore mi ricorda che non sono il solo ad esistere – dice Sgalambro – anche la folla in fondo mi permette di avere compagnia quando lo desidero. Sono un pessimista, lo so, vedo il mondo con gli occhi di chi contempla la fine delle illusioni, il disfacimento dei miti e degli antichi dei. Sparite le filosofie monumentali che educavano alla verità, non resta che l’accompagnamento funebre del nostro tempo. E io che farò? Scriverò un altro libro, ma uno soltanto. Oramai, non credo sia rimasto molto da dire». Forse «perché una volta trovata la verità, come uomini bisogna starsene alla larga e come filosofi non c’è più altro da aggiungere».
E Manlio Sgalambro, nuovo maitre à penser ha trovato la verità? Ma la risposta non arriva. Oppure è lì, in quello sfogliare silenzioso le pagine di Schopenhauer, dove ogni giorno di più il tempo fa impallidire l’inchiostro del pensiero. «La verità è nel venir meno della volontà. Uno spento silenzio maestoso, dolce e senza sussulti, quasi bello come un tramonto cantato da un vecchio lied». La Verità è la Fine.