E ora incominciamo dalla fine del mondo

Michele Dzieduszycki in L’Europeo, n. 38, 20 settembre 1982, pp. 86-87

Sorprese / Le idee di Manlio Sgalambro

Nella vita ha sempre coltivato agrumi e nessuno si era mai accorto di lui. Poi un giorno ha raccontato il suo pensiero in un libro. Ed è venuto il successo

Manlio Sgalambro nella casa dove abita a Catania (foto di Giovanni Caruso).

«Sono convinto che dobbiamo guardare alla realtà partendo da un unico punto di vista: quello della fine del mondo» dice Manlio Sgalambro. «Per troppo tempo la riflessione dei filosofi è partita da Dio o dalle origini dell’uomo. Bisogna invertire questo orientamento. La fine del mondo non è una ipotesi, è una certezza, anzi è l’ultima certezza che ci ha lasciato la scienza dell’Ottocento. La filosofia non può più restare quella di un tempo, dal momento che si sa che è inevitabile, sicura, la fine di tutto, che ci sarà l’annientamento del mondo o, se si vuole, la morte del sole».
La morte del sole è il titolo appunto di un libro di filosofia che è stata una delle poche novità culturali di questa estate. L’autore, Manlio Sgalambro, di Lentini, 58 anni, ha spedito direttamente il suo manoscritto all’editore Adelphi. Solo dopo molti mesi il suo testo è stato letto; e allora la casa editrice di via Brentano a Milano, contrariamente alle sue abitudini, ha deciso di pubblicarlo immediatamente.
Nonostante sia uscito in una stagione poco propizia, il libro ha avuto una risonanza insolita. La Repubblica gli ha dedicato una lunga e puntigliosa recensione, un settimanale popolare come Gente ha subito intervistato l’autore e, secondo Sgalambro per poco non ha ottenuto il premio Viareggio. Grande è stato l’entusiasmo degli «adelfiani» più convinti: il musicologo e saggista Mario Bortolotto ha scritto all’autore una lettera entusiasta.
Il libro si divide in 198 capitoletti brevi, o aforismi lunghi, come si preferisce. Il clima che domina in queste pagine è quello che regnava della cultura mittel-europea alla fine del secolo («Quei testi», dice Sgalambro,
«li conoscevo venti anni prima che fossero di moda»). Il messaggio del libro è di un pessimismo totale: un pessimismo, del resto, che l’autore definisce «un illuminismo portato fino alle ultime conseguenze», o anche «il dileguarsi del bene davanti al vero».
Il filosofo siciliano è un uomo molto magro, dal volto triste e scavato, che lavora in una stanza lunga e stretta, col balcone che guarda su una rumorosa piazza del centro di Catania. Sugli scaffali sono ammucchiati libri di filosofia, di poesia, di narrativa, di scienza.
Sgalambro rifiuta con sdegno il titolo di professore. «Non mi sono mai laureato», dice, soddisfatto.

«Ho studiato un po’ legge, poi mi sono dedicato a una grande passione della mia vita, quella per la lettura. Da ragazzo, a Lentini, leggevo enormemente, nella grande biblioteca di mio zio avvocato. C’era ancora il fascismo, e quando cercavo di parlare con qualcuno, gli amici di famiglia, per evitare gli argomenti scottanti, affrontavano i grandi temi: la vita, la morte, il bene, l’aldilà. Forse proprio per questo ho cominciato a interessarmi di filosofia. E così, leggendo e studiando, aiutando qualche studente a scrivere la sua tesi di laurea, ho vissuto fino a oggi in un totale anonimato. Di che cosa ho vissuto? Del reddito di un piccolo agrumeto, che mi ha lasciato mio padre».

Il vero colpo di fulmine, per Sgalamoro, arrivò nel 1944, quando, in un negozio di dischi, scopri, capitato lì chissà come, Il mondo come volontà e come rappresentazione di Arthur Schopenhauer. È uno dei pochi argomenti di cui il filosofo parli ancora con entusiasmo.

«Per me quel libro di Schopenhauer è veramente Zeitlos, senza tempo, insuperabile», dice Sgalambro. «Ho detestato a lungo Benedetto Croce, proprio per il tono di superiorità con cui parlava di Schopenhauer. Del resto su di me lo storicismo non ha mai fatto presa».

«Oggi poi», prosegue Sgalambro, «siamo entrati nell’era della post-filosofia. Non c’è più il pensatore ottimista, gioioso, sicuro di sé. Oggi la filosofia può essere solo umile, svogliata, ironica. La verità si cerca a partire dalla esperienza quotidiana. Non si scopre il vero, il bene. Semplicemente, ci si accorge di qualcosa, e senza provare nessuna gioia: troppo spesso, invece, si prova un senso di disgusto per quel che si è scoperto e portato a galla».
Nella sua esperienza quotidiana Sgalambro è rimasto molto colpito, per esempio, dal fatto che i settimanali di attualità dedichino uno spazio crescente all’astrologia e all’astronomia («Le fotografie di astri occhieggiano dai rotocalchi come nudità»). Cosa si nasconde dietro questo fenomeno?

«Secondo me, si tratta di un sintomo importante. L’uomo riacquista il senso del cosmo. Nella storia umana ci sono stati dei periodi in cui il cosmo è stato molto presente. Basta pensare all’astrologia nell’antichità e nel primo Rinascimento. Proprio in quei periodi, credo, si era più vicini alla verità, alla constatazione cioè che l’uomo è davvero una piccola cosa. In altri periodi, come per esempio nella prima metà del nostro secolo, il cosmo è stato quasi cancellato dalla nostra coscienza. La colpa è dello storicismo, idealista e poi marxista: la storia, insomma, ci ha nascosto l’universo. Occorre invece riacquistare la coscienza di tutto quello che sta intorno al nostro mondo, quello insomma che io chiamo lo sguardo cosmico…».
Il discorso viene interrotto da grida di ragazzi nel corridoio. Sgalambro si stringe nelle spalle.

«Purtroppo in questa casa stiamo un po’ stretti. Ci sono solo otto stanze… Sì, ma i miei figli sono cinque».

Non saranno un po’ troppi per un filosofo pessimista?

«Non credo. Giorgio Colli, altro filosofo pessimista, ne aveva sei. E poi sembra che gli ebrei deportati continuassero a fare figli anche nei lager, dove lo sterminio era praticamente sicuro».

Ma l’affetto per i suoi figli non ha modificato il suo modo di vedere le cose?

«Naturalmente no. Sono molto attaccato ai ragazzi, ma il sentimento è una cosa e la conoscenza è un’altra. Se noi pensassimo solo in relazione a quello che siamo, non esisterebbe più la filosofia. Nella vita pratica non c’è verità, ci sono solo dei punti di vista. O delle illusioni».

Ne La morte del sole si parla anche della educazione da dare ai bambini. C’è un passo molto suggestivo: «Si strombazza l’educazione sessuale, ma della vita, del fatto che essa non paghi, al fanciullo si tace. E da qui che si deve partire per educare. Dalla sfiducia nel mondo, nella vita…». Si tratta di un paradosso o di qualcosa di più?

«Credo che una educazione diversa sia davvero possibile. Certo, non può darla lo Stato, che deve formare i cittadini a guardare solo a quello che è utile. Ma credo che si possa insegnare per esempio che un rapporto con un albero (cioè con l’universo) è più importante di qualsiasi azione…».

Ma ha davvero senso insegnare ai giovani che devono essere pessimisti?

«I greci lo hanno fatto per secoli. Schopenhauer e Nietzsche hanno dimostrato quale pessimismo disperato fosse alla base della civiltà greca, in apparenza così serena. Meglio sarebbe non essere mai nati, si diceva allora. Eppure si continuava a vivere, a creare…».

Anche coloro che avversano sue idee hanno riconosciuto che lei scrive molto bene. Non ha paura di essere considerato solo un esteta intelligente?

«Forse lo scrivere bene, o meglio l’impressione di avere espresso un’idea nel modo migliore, è l’unico piacere che il filosofo possa trarre dalla sua attività».

Ora Sgalambro riprende a lavorare, solitario, a un secondo volume di considerazioni sulla vita. A vederlo chino sui fogli ci si domanda se non sarà ripreso tra poco da una di quelle crisi di sconforto cui accenna nelle ultime pagine del suo libro, che sono forse le più belle: «In realtà la filosofia è fatta per i deboli. I loro nervi che si torcono sotto il peso delle cose emettono acuti segnali, che gli altri raccolgono solo come pensieri. Eppure non è detto che non ci sia dell’altro…».

Cosa ne pensano i professori

Tre opinioni sul pensiero di un filosofo sconosciuto

Francesco Alberoni, con la figlia (foto di Nino Ieto).

Cosa bisogna pensare del libro di Sgalambro? Fino a oggi molti dei filosofi italiani hanno rifiutato di prendere posizione. Anche perché nel libro di Sgalambro si confondono sociologia, metafisica, osservazioni sulla vita quotidiana, critica della scienza. Abbiamo chiesto perciò un giudizio a un sociologo, a un pensatore religioso, a un filosofo.

«La morte del sole, questo libro così amaro e così ben scritto, mi sembra uno dei più belli usciti quest’anno. Due osservazioni di Sgalambro mi hanno particolarmente colpito. L’idea che noi possiamo conoscere la realtà solo nel momento della sofferenza, del dolore. “Fino dove presenzia l’armonia, l’accordo, arride il successo, lì ancora la verità non è rivelata”. Le cose si conoscono solo nel momento della loro nascita o della loro perdita, dicevo più o meno nel mio libro Le radici del bene e del male. Sgalambro preferisce parlare solo del momento della perdita. Un’altra idea interessante è quella che i valori sono in crisi proprio perché nella società moderna sono stati realizzati. È vero che la scienza moderna ha tradotto in pratica quelle che un tempo sembravano utopie. A differenza di Sgalambro, che ha una visione decadente della realtà, non credo che questo fenomeno sia negativo».
— Francesco Alberoni

«Leggendo La morte del sole sono stato colpito soprattutto dalla personalità dell’autore: un altro di quegli uomini del profondo Sud capaci di rimeditare, nel più profondo isolamento, i temi eterni della nostra cultura, utilizzando una preparazione filosofica molto approfondita e tutta di prima mano. Il limite del libro, secondo me, sta nelle conclusioni cui approda: mi sembra cioè che Sgalambro non si spinga al di là di quello che è già stato acquisito da gran parte della filosofia contemporanea; e cioè che il pensiero non può arrivare alla verità ma solo riflettere su se stesso, mentre la filosofia si riduce a una semplice testimonianza sul mistero dell’uomo e della vita».
— Sergio Quinzio

«Sgalambro mi sembra un ottimo scrittore. Ha una robustezza stilistica non comune. Dovrebbe lavorare soprattutto in questa direzione».
— Emanuele Severino