Enrico Filippini in La Repubblica, 17 agosto 1982, p. 15
L’uomo di oggi dopo la morte della filosofia: un saggio di Manlio Sgalambro
Dalla Sicilia quest’anno ci è arrivato un libro di filosofia. Molto opportunamente, perché mentre tutti vanno in giro a dire che c’è un «ritorno della filosofia» o «alla filosofia» (che frattanto si vuole abolire nelle scuole medie superiori), il libro viene a dire con gelida asprezza che il ritorno della filosofia è solo un effetto della concorrenza sul mercato intellettuale, che la filosofia è tramontata per sempre e che, al più, è un gigantesco rudere, o un ossario, che ingombra l’orizzonte. Il tema della morte della filosofia (come quello della morte dell’arte) non è certo nuovo, e anzi per un certo verso è già banale. Per non citare altro, si può ricordare il grande saggio di Jacques Derrida su Lévinas, dove la morte della filosofia non è affermata, ma assunta come ipotesi: nella prospettiva di ciò che potrebbe sorgere dopo la filosofia, cioè l’«interrogazione». Nel piccolo e ambiziosissimo libro che viene dalla Sicilia, che è La morte del sole di Manlio Sgalambro e che viene pubblicato con evidente impegno dall’Adelphi (pagg. 218, lire 12.000), non è cosi: non c’è prospettiva alcuna, e dopo la filosofia ci può essere soltanto, caso mai, terrore. Il libro di Sgalambro è un libro funerario e intensamente distruttivo, frutto di un’evidente competenza e soprattutto di odio (odium) intellettuale.
Passato e futuro
La morte della filosofia, della «filosofia monumentale», solitaria, maestosa, radicata nell’idea di
«verità», non ha data. Ciò che si può fare è cogliere nella sua vicenda i segni di un progressivo e talora segreto paralizzarsi della vita. Nel testo di Sgalambro, questi segni sono molti, e spesso reperiti da un occhio molto acuto là dove nessuno se li sarebbe aspettati: per esempio nell’organizzazione ellenistica della cultura, nel passaggio, per cosi dire, da Socrate a Epicuro, ma soprattutto nei trasformarsi del «vero» in «certo» nel gesto fondamentale di Descartes all’inizio del Discorso del metodo, e poi nel solidificarsi dei grandi sistemi idealistici fino a Schopenhauer.
La morte della filosofia avviene con la trasformazione della filosofia in storia della filosofia, nel-l’istituirsi della “filosofia progressiva”, nel profilarsi del dominio della “ragione pratica”, della “prassi” e di una conoscenza organizzata. E naturalmente, come per ogni pensiero catastrofico, è legata alle contraddizioni del “progresso”: «Sin dalle origini, la filosofia progressiva usa un concetto arretrato di progresso, col primato della soddisfazione dei bisogni e l’arte come pratica “sociale” da caverna. L’impegno… a eliminare la nemica fortuità della conoscenza… è reso operante mediante un’organizzazione più manageriale che la mette a disposizione dei “migliori”».
Ho scelto questa citazione perché essa allude al fatto che la morte della filosofia non riguarda solo la filosofia: riguarda «la civiltà», il sistema culturale nella sua globalità, e ciò che un tempo forse era alla sua originema che oggi parrebbe piuttosto un suo residuo: la semplice vita. Non c’è scampo: la libertà di pensiero non distrugge la morale» (che rimase stupida e solida come prima»), bensì il concetto di verità; il piccolo individuo è sballottato in mezzo a flutti che in nessun modo può dominare; il tentativo di conciliare verità e novità trasforma l’estetica trascendentale di Kant in giornalismo (il giornale «deve scodellare “giudizi sintetici” ogni mattina, pena la morte»); l’idea di formazione e di istruzione appiattisce ogni forma di conoscenza, i cui dispositivi diventano meccanismi di cecità… «Il regresso prende forma di progresso. Si va avanti per tornare indietro. Si va avanti per ricongiungersi al più presto con il passato, che e li ad attendere come futuro».
Eppure tutto questo non è ancora nulla, e cosi sottratto alla scrittura può anche suonare banale. Tanto vale dire semplicemente che le radiazioni mortifere si insinuano ovunque: nel lavoro, nel riposo, nell’amore, nel sesso, nel sentimento, nella maniera di abitare, nei rapporti tra genitori e figli – non c’è rifugio. E in fondo al cannocchiale c’è il compimento della civiltà: «Il terrore che Nietzsche voleva suscitare col rovesciamento di tutti i valori è niente davanti a ciò che è avvenuto: la realizzazione di tutti i valori nella civiltà pervenuta al suo compimento. La campana che suona “tutti i valori sono realizzati” suona a morto per chi ancora sperava. La civiltà sconta ogni speranza tramutando i sogni dell’uomo in realtà e facendoli vedere bene in faccia. La sua insopportabilità è l’insopportabilità della realtà medesima…».
Questa realizzazione dei valori (che è una delle idee più utilizzabili del libro) ha luogo nella luce del Wärmetod, della morte termica: alla fine della peripezia conoscitiva della scienza, che alla filosofia era apparsa infinita e non passibile di compimento, l’universo appare passibile di annientamento, e insieme caos. Si vive, anzi, come se l’annientamento fosse già avvenuto e al cospetto di un immane non-senso: «le esplorazioni stellari, il cozzo di galassie, il disfarsi di stelle sono presenti in ogni più piccolo giudizio… Si forma una seconda coscienza, ma priva di quell’appagamento e conforto che la felice immagine del sole evocava. Ogni giudizio è ormai cosmicizzato». Un qualche spessore, il mondo può ritrovarlo solo nel timore e nel terrore.
Questi non sono tutti i temi di Sgalambro (anche perché i temi di Sgalambro sono «tutti i temi»), ma solo alcuni dei principali. Tuttavia non dirci che l’energia del libro, quel tanto di energia che il libro ha, si manifesti qui. Com’è naturale, trattandosi si di un’opera prima, ma anche di un «libro ultimo», la sua energia è nell’ombra, negli anfratti, nei particolari, e balena in certi cortocircuiti che squarciano l’opacità del vuoto.
Queste fiammate si accendono quando Sgalambro strapazza i grandi testi della «filosofia monumentale», ma anche la triste «filosofia della vita» e l’equivoco storicismo, per estorcere loro un significato. Un po’ meno quando malmena la sociologia, o l’estetica, o addirittura la sessuologia, ma abbastanza spesso quando conia certe espressioni, come quella di «idealismo mondiale», per dire quella forma di giulivo non-pensiero con cui vengono indorati i rapporti tra gli individui, l’educazione dell’infanzia, la natura dei bambini, la «Cultura», e che indubitabilmente costituisce una forma estrema di abiezione.
A mio gusto poi – anche se non bisognerebbe citare il proprio gusto al cospetto di una «filosofia del vero» – il meglio di questo libro è in quelle schegge in cui è evocato un senso superstite e for se originario del filosofare. Una per tutte: «Un ponte che crolla è reale; è in quell’istante che la sua realtà si rivela, mentre per tutto il resto del tempo non si distingue dal sogno in cui ciascuno sogna non di essere re, ma quello che è… Nel sogno della vita quotidiana… è quando qualcosa spezza le gambe che ci si sveglia».
Sfortunatamente però, un senso così acuto del rischio e della sfida si accorda male con quel tanto che nel libro non è più energia ma inerzia, a cominciare dall’imbarazzante manierismo adorniano. Dopo raffronti accurati, non ci possono essere dubbi: la scrittura e i modi dell’argomentazione sono ricalcati persino nei vezzi, anzi soprattutto nei vezzi, su quelli (a mio gusto ancora affascinanti) del vecchio Theodor W. Adorno. Non nel senso che dicano le stesse cose. Ma, incomprensibilmente, nel senso che dicono cose opposte nella stessa identica maniera. Il che non può non suscitare sospetto, perché deve avere a che fare con la verità o con la non-verità. E non può neppure non suscitare perplessità: non ci si può infilare nella scrittura di un altro come se fosse un vestito, non si può dire «La morte ha perso quel che aveva ancora di vita» anche se ciò che segue è illuminante, perché l’imitazione trasforma l’argomento in sussiegosa e comica gesticolazione. Anche quando crollano i ponti della scrittura ci si dovrebbe accorgere che si stava sognando.
Una lira per Socrate
E infine, qualcosa accade: «Corpi che si sfasciano, carni putrefatte, ureteri che gocciolano, vagine maleodoranti, retti che si svuotano e, tra l’uno e l’altro, l’irrequieto sperma che semina vita. La pietra che dura più di me, la noia, il dolore, il fetore dell’alito, specchio dell’anima…». Come no? È una reminiscenza della Morgue del vecchio Gottfried Benn, grandissimo poeta. Ma per come cade, cade in riga con la stridula acidità di certe espressioni e di certi repentini aggettivi: con «l’alitare dello spirito», cioè col «suo fetido puzzo»; con la «triplice illusione», cioè «vivere, riprodursi, crepare»; con la profonda convinzione che «Ogni fare è merda disseccata…».
I corsivi sono mici. Indicano lo sgradevole stridore che queste espressioni mi hanno suscitato nell’orecchio. Non per pruderie. Ma perché palesano qualcosa che indugia sul fondo di questo libro: una specie di acrimonia, una specie di risentimento umorale, una specie di rancorosa fobia: un senso della via come morte auspicata. Questo non è più odio intellettuale. E non è elegante, e soprattutto è poco filosofico. In fin dei conti, dopo che ebbe bevuto la cicuta, Socrate chiese di poter imparare a suonare la lira, anche se quella lira non l’avrebbe potuta suonare mai più.